di Michele Paris

Uno dei riflessi dell’accordo sul nucleare iraniano, siglato la scorsa settimana a Vienna e approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU lunedì, è stata la reazione più o meno accesa degli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, preoccupati per le conseguenze strategiche vere o presunte del riavvicinamento tra Washington e Teheran. Israele e Arabia Saudita, in particolare, continuano a nutrire serie preoccupazioni sul ruolo da protagonista che la Repubblica Islamica potrebbe tornare a giocare nella regione, costringendo l’amministrazione Obama a intervenire con iniziative volte a placare le ansie degli inquieti alleati.

Non solo il fronte interno americano è apparso subito caldo all’indomani della firma dell’intesa nella capitale austriaca, con la maggioranza repubblicana al Congresso e parte dei democratici pronti a bocciare il testo dell’accordo, ma soprattutto il governo israeliano ha sparato a zero su quello che i giornali d’oltreoceano hanno definito come il principale successo in politica estera del presidente Obama.

Note sono ormai le sfuriate del premier Netanyahu, intervenuto più volte pubblicamente per condannare l’accordo di Vienna, bollandolo come uno “storico errore” e assicurando di essere pronto a morire pur di bloccarne l’implementazione. Lo stesso primo ministro è apparso anche in alcuni show domenicali negli Stati Uniti nel fine settimana, ribadendo le sue dichiarazioni deliranti circa il pericolo rappresentato dalla “macchina del terrore iraniana”.

Secondo Israele, l’accordo sottoscritto con il gruppo dei P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) dopo quasi due anni di negoziati consentirebbe alla Repubblica Islamica di proseguire i progetti per la costruzione di ordigni nucleari e di mettere le mani su oltre 100 miliardi di dollari congelati all’estero a causa delle sanzioni, con i quali potrebbe finanziare e armare forze nemiche di Tel Aviv, come Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza.

Decisamente più sommesse sono state al contrario le reazioni pubbliche della monarchia saudita, con poche voci che hanno esplicitamente criticato gli USA. Una di queste è stata quella dell’ex potente capo dei servizi segreti sauditi, Bandar bin Sultan, per il quale l’accordo sul nucleare permetterà all’Iran di “seminare il caos nella regione”.

Sia Israele sia l’Arabia Saudita sono evidentemente impegnati in un esercizio di rovesciamento della realtà mediorientale, dove a destabilizzare la regione e a generare caos e morte sarebbe Teheran e non i governi di questi due stessi paesi, alternativamente responsabili - assieme agli Stati Uniti - del massacro indiscriminato di civili palestinesi, della dissoluzione dello stato siriano, dell’aggressione contro lo Yemen e del proliferare di organizzazioni fondamentaliste.

Nel caso di Israele, oltretutto, l’iprocrisia sfiora l’incredibile, poiché questo paese, oltre ad agire regolarmente in violazione del diritto internazionale, possiede un numero imprecisato di armi nucleari non dichiarate e, a differenza dell’Iran, non ha mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione.

L’atteggiamento di Tel Aviv e Riyadh rischia dunque di ostacolare l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare ma, dal momento che per molti versi i disegni strategici dei due paesi coincidono sostanzialmente con quelli americani, gli Stati Uniti non possono che provare a ricucire gli strappi con entrambi. A questo scopo, lunedì ha preso il via la trasferta in Medio Oriente del segretario alla Difesa, Ashton Carter. La prima tappa di quest’ultimo è Israele, da dove raggiungerà la Giordania e, infine, l’Arabia Saudita.

Il viaggio di Carter è accompagnato dalle voci di un’offerta, fatta probabilmente dallo stesso Obama a Netanyahu nel corso di un colloquio telefonico la scorsa settimana, di consolidare la partnership tra i due alleati nell’ambito della sicurezza. In concreto, Washington intende placare la rabbia di Netanyahu con maggiori aiuti militari, secondo alcuni passando dagli attuali 3 miliardi di dollari all’anno a 4,5 miliardi.

L’amministrazione Obama teme che le manovre del governo di estrema destra di Tel Aviv possano riuscire a far naufragare l’accordo sul nucleare ora all’esame del Congresso americano, i cui membri saranno chiamati a votarlo entro 60 giorni. Inoltre, non del tutto da escludere continua a essere una possibile iniziativa militare unilaterale da parte di Israele contro le installazioni nucleari iraniane, con conseguenze difficili da calcolare.

Ad ogni modo, secondo quanto riportato dai giornali americani nei giorni scorsi, Netanyahu non appare ancora pronto a discutere i nuovi “aiuti” militari con gli alleati americani, ma preferisce appunto attendere l’esito del voto al Congresso sull’accordo con l’Iran.

Apparentemente più malleabili sembrano essere invece i vertici sauditi, forse non convinti dell’opportunità della soluzione pacifica della vicenda del nucleare iraniano ma ben disposti verso il rafforzamento dei legami militari con Washington. Già a maggio, infatti, Obama aveva ospitato a Camp David un summit con i rappresentanti delle monarchie assolute del Golfo Persico, confermando l’impegno americano per la sicurezza di queste ultime.

La settimana scorsa, poi, il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, si era recato a Washington per altre discussioni su questi argomenti che, prevedibilmente, saranno sull’agenda del numero uno del Pentagono nella sua imminente visita a Riyadh. Carter, da parte sua, alla vigilia della partenza per il Medio Oriente ha ricordato come “nelle 100 pagine [dell’accordo sul nucleare] non ci sia nulla che limiti gli Stati Uniti nella difesa dei propri alleati, incluso Israele”.

Come ha spiegato domenica il Wall Street Journal, infatti, gli USA starebbero valutando di accelerare “le forniture di armi ai paesi arabi del Golfo Persico”, nonché i “piani per sviluppare un sistema regionale integrato di difesa missilistica”.

A ciò vanno aggiunte anche le decine di miliardi di dollari spesi negli ultimi anni da questi stessi regimi per acquistare nuovi armamenti letali dagli Stati Uniti. Una vera e propria corsa al riarmo, quella in atto in Medio Oriente con il beneplacito di Washington, che stride fortemente sia con le intenzioni di pace manifestate dall’amministrazione Obama all’indomani della firma sull’accordo con l’Iran sia con l’ostinazione con cui gli USA e i loro alleati nei P5+1 hanno perseguito a Vienna il mantenimento dell’embargo sulle armi che pesa sulla Repubblica Islamica.

L’importanza assegnata dalla Casa Bianca ai rapporti con Israele e le monarchie del Golfo, in funzione della necessità di vedere ratificato l’accordo sul nucleare, è comunque evidente dagli sforzi diplomatici in atto. Dopo la trasferta di Carter, ai primi di agosto toccherà al segretario di Stato, John Kerry, fare visita agli alleati arabi, in preparazione dei probabili colloqui che il presidente Obama terrà a settembre con alcuni esponenti di questi ultimi – e forse con lo stesso Netanyahu – a margine dell’annuale Assemblea Generale dell’ONU.

Paesi come Israele e Arabia Saudita, come gli Stati Uniti e gli altri paesi impegnati nei negoziati di Vienna, sono perfettamente a conoscenza del fatto che l’Iran non stia sviluppando alcun programma nucleare a scopi militari, così che il loro agitarsi per far fallire l’accordo nasconde apprensioni di diversa natura.

Entrambi, cioè, paventano la scelta strategica americana in questo ambito perché un’eventuale distensione tra Teheran e Washington potrebbe determinare un ridimensionamento della loro posizione di principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, con tutte le conseguenze sfavorevoli che ne deriverebbero in termini di equilibri militari, politici e strategici.

L’amministrazione Obama è però determinata a mandare in porto l’accordo appena firmato, visto che l’esplorazione di un processo di allentamento delle tensioni con l’Iran è strettamente legata alle sfide immediate e future alla posizione dominante degli USA nel pianeta rappresentate da Cina e Russia e, ancor più, da una possibile integrazione economico-politica euroasiatica.

Una qualche riconciliazione con la Repubblica Islamica potrebbe comportare per il governo americano anche la neutralizzazione di un rivale importante, favorita dagli orientamenti relativamente filo-occidentali della leadership moderata del presidente Hassan Rouhani e del suo ministro degli Esteri, Mohammad Javaz Zarif, e il tentativo quanto meno di rallentare lo spostamento definitivo di questo stesso paese verso l’asse Mosca-Pechino in fase di formazione.

Per perseguire questo obiettivo, tuttavia, Washington dovrà muoversi con estrema cautela per non danneggiare in maniera irreparabile i rapporti con i propri alleati mediorientali, come ha già in qualche modo avvertito l’Arabia Saudita attraverso recenti accordi economico-militari negoziati con Mosca. Questo equilibrio precario ancora tutto da raggiungere, perciò, rende già da ora estremamente complicata la scommessa americana suggellata con il neonato accordo sul nucleare iraniano.

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