di Fabrizio Casari

Dodici ore di dignità nelle urne, dopo sedici anni di umiliazioni e ruberie, hanno riportato il Nicaragua sull’altare della sovranità. Il trionfo elettorale della coalizione guidata dal Comandante Daniel Ortega Saavedra e dal Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional, ha spazzato via il dominio della destra che, dal 1990 ad oggi, con tre governi ultraliberisti, aveva ridotto uno straccio il già povero Paese centroamericano. Il Nicaragua si trova ad essere, di nuovo come negli anni ’80, proprietà dei nicaraguensi e non degli organismi finanziari internazionali che ne hanno soffocato ogni ambizione, fosse anche solo quella di mantenersi in una povertà decente. La vittoria di Daniel Ortega è una splendida notizia. Per i nicaraguensi in primo luogo, che vedono ridisegnare un futuro diverso e per la sinistra latinoamericana, che incrementa il trand favorevole degli ultimi anni aggiungendo un altro Paese alla strategia di affrancamento da Washington e sommandolo alle proposte d’integrazione continentale latinoamericana. La vittoria di Ortega e della coalizione Nicaragua Triunfa é stata determinata tanto dalla divisione dell’elettorato liberale che dalla capacità di unire settori politici e sociali diversi da parte del Frente Sandinista. Non hanno avuto successo nemmeno i tentativi degli ex-sandinisti che hanno formato una lista elettorale con lo scopo evidente di impedire la vittoria di Ortega; lista elettorale che definiscono di sinistra ma che, stranamente, incontra il favore dell’ambasciata statunitense, che ebbe a definirla “un valido contributo al rafforzamento democratico”. Le polemiche sull’apertura di Ortega agli ex-contras, presente anche, ma in sedicesimo, nelle liste del Mrs non sono servite. Il suo risultato, atteso tra il 14 e il 18 per cento, si è fermato al 7, evidenziando come, nell’ora decisiva, l’elettorato sandinista preferisca il partito nato nella lotta contro la dittatura e che, dall'opposizione, ha mantenuto la testa delle rivendicazioni sociali in questi 16 anni. E' sembrato, l'Fsln l'espressione di un sandinismo autentico, piuttosto che quello dell' Mrs, fabbricato dentro le case della borghesia progressista, accucciato comodamente sulle ginocchia liberali al punto da preferire, come ha detto Cardenal “una vittoria liberale piuttosto che quella del Fsln”.

I nicaraguensi vedono di nuovo all’orizzonte la possibilità di una nuova fase politica, quindi economica e sociale, che invertirà – gradatamente o repentinamente è presto per dirlo – l’indirizzo fin qui seguito da Violeta Chamorro, Aleman e Bolanos, che ha portato il Nicaragua nell’abisso della miseria più nera. Questo, più di ogni altra considerazione, è stato l’elemento decisivo nelle urne. Senza nessuna guerra di aggressione, senza blocco economico, senza il blocco dei prestiti e degli aiuti internazionali e senza pressioni politiche di nessuna natura, i governi che dal 1990 in poi hanno sottratto ai sandinisti la guida del Paese, hanno dato i risultati che era possibile prevedere. Le cifre enormi che sono piovute sui governi liberisti hanno avuto il coerente destino che sogna la destra: arricchire le oligarchie, impoverire i meno abbienti. Basta leggere i dati della spesa sociale per capire cosa sono stati i 16 anni in mano agli adepti dei Chicago Boys : società pubbliche vendute a prezzi irrisori al capitale straniero e istituzione delle zone franche. I dati della Banca Mondiale segnalano che il 46% dei nicaraguensi sopravvive con poco più di un dollaro al giorno, mentre disoccupazione e lavoro precario raggiungono insieme il 68% della Popolazione Economicamente attiva (PEA).

L'analfabetismo, praticamente sradicato durante il periodo sandinista, raggiunge il 35% della popolazione e 800 mila bambini sono fuori dal sistema scolatico mentre nelle strade aumentano quotidianamente i piccoli mendicanti; nei casi migliori venditori di giornali o lavavetri ai semafori intenti a raccattare qualche cordobas da portare a casa. Quando c'è una casa. La Fao avverte che il Nicaragua ha l'indice di denutrizione più alto del centro america (un milione e 400 mila persone, in maggioranza bambini) che subiranno le ripercussioni della fame nel loro futuro sviluppo. Daniel Ortega potrà ora cominciare ad invertire la rotta del Paese.

Mentre Managua è in festa, in un turbinìo di carovane che sventolano le bandiere rossonere del Fsln, i lamenti ed i toni rabbiosi della destra vanno affievolendosi, in attesa che il loro azionista di riferimento – l’Amministrazione Bush – si pronunci. Già ieri Condoleeza Rice, cosciente del risultato che si va profilando nettamente, aveva dichiarato che “una elezione non è andata come volevamo”. Inutili, anzi probabilmente controproducenti, si sono rivelate le ingerenze, le pressioni, i ricatti che l’ambasciata statunitense a Managua e l’Amministrazione Usa a Washington hanno lanciato a sorta di “monito” contro l’eventualituale vittoria di Ortega. L’elettorato nicaraguense ha scelto di rispedire al mittente le minacce di Washington, che ora cercherà di sminuire il valore legale del voto.

Ma diversamente da quanto ci si aspetta, forse gli Usa cercheranno una strada diplomatica nel futuro delle relazioni con il Nicaragua. L’Amministrazione Bush, che incassa la sconfitta peggiore nel continente, visto il valore simbolico del Nicaragua, il suo interesse strategico e l’immagine di Ortega, difficilmente sceglierà nell’immediato l’inasprimento violento dei rapporti con il nuovo governo. L’alleanza che governerà il Paese è difficilmente etichettabile come “minaccia per la stabilità regionale” e l’appoggio della Chiesa e di ampi settori del Paese scoraggiano la possibilità di accelerare una crisi diplomatica con un paese che, alla fine, ha una posizione delicata nell’ambito degli equilibri regionali. Certo, si potrebbe obiettare che Bush non ha mai avuto il dono della lungimiranza politica, ma il prevedibile rovescio nel Congresso che si profila con le elezioni di Mid Term e l’ormai conclamata crisi di fiducia degli statunitensi nei confronti dell’Amministrazione, ridurrà sensibilmente i margini di isteria della Casa Bianca. Che certo non potrà dichiararsi soddisfatta né potrà fingere una sorta di neutrale distacco, ma che cercherà, magari in maniera riservata, di non dichiarare persa un’altra tessera del mosaico di sconfitte che è venuta accumulando negli ultimi anni.

La certificazione della regolarità delle operazioni di voto da parte degli osservatori interni ed internazionali ha rappresentato il sigillo giuridico ad una vittoria che è, prima di tutto, politica. Quei sandinisti che, sedici anni fa, avevano lasciato democraticamente il potere, sono di nuovo maggioranza. La statua di Sandino, che dall’altura di Tiscapa domina la capitale, ieri sembrava fosse attraversata da un leggero movimento: quello della bocca che si ammorbidiva in un tenero sorriso che, dopo sedici anni, è tornato a illuminare la sua terra, di nuovo libera.






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