di Fabrizio Casari

Si allarga al resto d’Europa l’allarme terrorismo. Ultimo in ordine di tempo quello di ieri sera allo stadio di Hannover, dove doveva svolgersi la partita di calcio tra Germania e Olanda; annullata anche quella che doveva disputarsi a Bruxelles tra Belgio e Spagna. Sembra quindi che anche la Germania debba aggiungersi ai paesi nel mirino del Daesh. Ma soprattutto che, diversamente da episodi passati, un attentato rischi di essere solo l’inizio di una catena di altri e che non uno, ma molti paesi europei possano venire coinvolti.

Prosegue così senza sosta il clima di timore per nuovi attentati in Europa, a conferma di come le intelligence occidentali valutino seriamente le capacità operative del Daesh. Sono passate solo poche ore da quando Francois Hollande ha chiesto a Bruxelles di non lasciar sola Parigi nelle operazioni militari contro il Daesh. “Siamo in guerra, chiediamo aiuto alla UE”, ha detto il titolare dell’Eliseo. L’alto Commissario per la politica estera e di sicurezza europea, Federica Mogherini, ha risposto positivamente, garantendo l’impegno della UE al fianco della Francia.

Ma le parole della Mogherini sono soprattutto sostegno politico e buone intenzioni più che una risposta alla chiamata alle armi dei francesi. L’appello all’art. 42.7 del Trattato di Lisbona è stato sì accolto, ma con una interpretazione quantomeno elastica. Il che non è un male, non essendo l’ennesima invasione di un paese mediorientale la soluzione auspicabile, ma solo l’innesco per altri due decenni di terrore.

Diversamente da quanto affermato sui media internazionali, infatti, l’abbraccio del mondo con la Francia risulta al momento più che altro una pacca sulle spalle. Né gli Stati Uniti, né l’Europa, meno che mai i paesi arabi e i regimi monarchici del Golfo si sono spinti oltre un impegno generico. D’altra parte le responsabilità storiche della Francia nel continente africano e nella stessa crisi siriana non sono certo trascurabili ed è naturale che l’atteggiamento da tenere non può essere l’adesione acritica alla volontà di Hollande.

Allo stato, Parigi ha trovato orecchie e voci disponibili ad un impegno militare solo da parte della Russia, con la quale è allo studio un coordinamento che verrà raffinato nella prossima riunione tra Hollande e Putin, il prossimo 26 a Mosca, con il presidente francese reduce dal viaggio negli Usa dove il 24 incontrerà Obama.

La riunione con Obama è particolarmente importante, dal momento che verranno stabiliti gli eventuali possibili confini ed ambiti della collaborazione militare con la Russia per un paese membro della Nato. Gli esiti della riunione avranno conseguenze decisive anche per l’eventuale impegno della UE. L’Europa non muove un passo senza la guida statunitense. Non si tratta solo di capacità militare, ma anche di leadership politica. In particolare per la Gran Bretagna, che nella dipendenza totale dalle scelte statunitensi ha da sempre il suo tratto distintivo.

Ma se Parigi spera di convincere Obama ad intervenire al suo fianco, rischia di rimanere deluso. Sarà un aiuto - quello statunitense - in intensificazione dei raid aerei, in  intelligence e mezzi di ricognizione, in sistemi di protezione e assistenza alle operazioni, ma non in termini di truppe. Il Presidente USA, conscio degli errori storici di Washington in Medio Oriente (ai quali lui stesso ha dato un decisivo, tragico apporto) tende a non chiudere il suo mandato con un’altra spedizione militare, benché i falchi nel Congresso e al Senato spingano in questa direzione. Dunque, al momento, Parigi può contare solo sulla Russia.

Russia che pure ha già colpito duramente i terroristi ed ha consentito all’esercito siriano di ristabilire ordine nei suoi reparti, ma che si rende perfettamente conto che l’articolazione in piccoli reparti del Daesh rende insufficienti i soli bombardamenti sulle loro postazioni. Mosca ritiene comunque che una eventuale strategia condivisa di attacco non possa essere affrontata in un ambito come quello Nato, al cui interno siede la Turchia, e nemmeno possano essere coinvolti gli alleati storici statunitensi nell’area - come i sauditi - perché la sicurezza delle operazioni sarebbe seriamente compromessa in virtù degli interessi diretti di Ankara e Riyadh che dei nemici sono i migliori amici.

Lo ha detto chiaro e tondo al G20 lo stesso Putin:“Vi sono anche qui, all’interno di questo G20 - ha detto il Presidente russo - paesi che sostengono l’ISIS” (o Daesh come lo si voglia chiamare). L’intenzione di Mosca è quella di scoperchiare la pentola dove in un minestrone indigesto vengono cucinati interessi divergenti.

In particolare quelli delle monarchie oscurantiste del Golfo, che utilizzano i terroristi del Daesh per abbattere Assad e rompere l’alleanza politico-militare sciita tra l’Iran, la Siria, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. E anche quelli della Turchia, che sostiene il Daesh sia attraverso l’aiuto diretto (il passaggio di loro uomini e merci alla frontiera turca) che indirettamente, bombardando i Peshmerga kurdi, unici ad infliggere severe sconfitte agli uomini del Califfato. L’interesse di Ankara non è di sconfiggere il Daesh quanto impedire sul nascere la riunificazione dei kurdi in Irak, Siria e Turchia, dal momento che la riunificazione dei circa 30 milioni di kurdi in un unico Stato è vista come una minaccia mortale al suo regime.

E’ quindi necessario un robusto salto di qualità nell’intesa politica che, sola, può produrre una strategia condivisa. Politicamente, economicamente, Mosca non può assumere sulle sue spalle il destino della guerra al Califfato e del riassetto generale del Medio Oriente in termini politici e militari: la condivisione di linea politica con l’Occidente e la sua leadership è indispensabile. Le rassicuranti parole di Obama circa l’importanza del suo intervento potrebbero sì essere il primo passo per l’interruzione del contrasto con Washington e Bruxelles, ma non si può escludere che Obama voglia delegare ai russi i lutti inevitabili per la sconfitta del Daesh.

Mosca non vuole e non può rimanere isolata ma intende sin da ora delineare quale sarebbe lo scenario per la Siria una volta che il Daesh fosse stato sconfitto. E decidere una linea comune per la Siria è solo il primo passo di una generale rivisitazione degli equilibri regionali. A fronte di un ulteriore coinvolgimento, Mosca chiederà un deciso cambio di rotta a Washington e Bruxelles. Sa che qualunque riassetto possibile nel risiko mediorientale che non metta in discussione radicalmente l’espansionismo saudita e turco, difficilmente avrà una dimensione di prospettiva a medio-lungo termine.

Il che non toglie che Mosca, anche in assenza di un’intesa globale, continuerà ad attaccare il Daesh; motivi geostrategici, di sicurezza e, a questo punto, anche d’immagine, glielo impongono. L’ammissione del riscontro di prove della presenza di un ordigno a bordo del volo russo esploso sul Sinai, serve proprio a riconfermare ai russi l’inevitabilità di una iniziativa militare contro il terrorismo jahidista. “Li andremo a stanare ovunque siano e la vendetta sarà tremenda” ha detto Putin. Ma sarà il grado di condivisione con l’Occidente a stabilire la misura e la modalità dell’intervento russo. Diversamente, continuerà ad assicurare la riconquista da pare dell’esercito siriano del controllo del Paese e si limiterà a garantire l’incolumità delle sue basi e il mantenimento al potere di Assad o di un suo successore gradito a Mosca.

E mentre si vanno delineando le strategie d’intervento e i piani di reazione alla minaccia terroristica, va registrata una commovente ondata di solidarietà popolare con la Francia senza precedenti, che viaggia soprattutto nella Rete. Una solidarietà importante, che viaggia però con il retrogusto amaro di una similitudine eurocentrica, dal momento che né l’attentato a Beirut con 35 morti di Hezbollah ad opera del Daesh, né l’abbattimento dell’aereo russo sul Sinai, con 224 vittime altrettanto innocenti come quelle di Parigi, avevano suscitato hashtag, bandiere sui profili facebook e minuti di silenzio nelle diverse capitali europee.

Non si vuole certo polemizzare sul dolore e la sacrosanta indignazione che ogni morte innocente produce, ma l’espressione di questi sentimenti indipendentemente dall’appartenenza delle vittime risulterebbe certo più nobile e meno schierata. Sarebbe quindi bene che gli europei esportassero anche a Sud la giusta indignazione per le vittime del terrore.

Certo, sappiamo tutti qual è l’amara verità: sul borsino internazionale del dolore la morte di un occidentale vale molto più che quella di un orientale. E’ uno degli aspetti peggiori del dominio culturale del mainstream informativo in mano all’Occidente, che chiama morti gli altri e vittime i suoi. Rafforzando così le frustrazioni e le umiliazioni che affollano il mondo arabo e dalle quali attingono cinicamente i califfi d’ogni sorta per trasformare ogni musulmano in un potenziale terrorista.

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