di Michele Paris

Dal summit dei G-20 in Turchia, martedì il presidente americano Obama è volato nelle Filippine per partecipare al primo di una serie di vertici che coinvolgono i paesi dell’Asia sud-orientale e dell’area Pacifico, mettendo subito in chiaro l’intenzione da parte degli Stati Uniti di sfruttare ogni singolo palcoscenico internazionale per alimentare ulteriori tensioni anti-cinesi.

Il primo evento a cui sta prendendo parte Obama è quello che riunisce i 21 paesi membri della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica (APEC), in corso appunto a Manila. Nei prossimi giorni si terranno invece il summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e il Forum dell’Asia Orientale (EAS), entrambi a Kuala Lumpur, in Malaysia.

L’inquilino della Casa Bianca ha da subito sollevato la questione delle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale, oggetto da alcuni anni di accese dispute, incoraggiate da Washington, tra Pechino e vari paesi della regione. Già durante il primo giorno di lavori all’APEC, Obama ha invitato la Cina a interrompere le operazioni nell’arcipelago di Spratly conteso con le Filippine, dove recentemente alcune aree sono state strappate al mare per costruire installazioni civili e militari.

Obama ha poi chiesto ai leader cinesi di prendere iniziative per ridurre le tensioni nel Mar Cinese Meridionale, mentre ha ribadito l’appoggio del suo governo a quello di Manila nella causa presentata dalle Filippine contro Pechino presso un tribunale internazionale a L’Aia, in Olanda, sui territori contesi.

L’enfasi posta sulla necessità di trovare una soluzione multilaterale, verosimilmente mediata da Washington, per risolvere le rivendicazioni nelle acque del sud-est asiatico è stata inoltre, come di consueto, un altro modo per alzare in maniera deliberata il livello dello scontro con la Cina, visto che quest’ultimo paese si è sempre detto disposto a negoziare una soluzione diplomatica ma soltanto a livello bilaterale e senza interferenze di paesi terzi.

La scelta del presidente americano di affrontare direttamente un argomento così sgradito a Pechino appare ricca di significato, non solo perché giunge a pochi giorni dagli attentati di Parigi che hanno fatto alzare i livelli della retorica dell’unità nella lotta al terrorismo, ma anche alla luce del fatto che i vertici APEC, dedicati alle questioni economiche e commerciali, sono raramente il teatro di dispute diplomatiche o di discussioni legate alla sicurezza della regione.

Come se non bastasse, il presidente cinese, Xi Jinping, aveva accettato di essere presente a Manila solo dopo avere avuto la rassicurazione dal presidente filippino, Benigno Aquino, che il suo governo non avrebbe sollevato la questione delle dispute territoriali durante il summit.

Già martedì, comunque, nel suo primo giorno di visita nelle Filippine, Obama aveva mostrato la volonta di agitare ancor più le acque nel continente asiatico. Il presidente era apparso pubblicamente a bordo della fregata filippina BRP Gregorio Del Pilar nel porto di Manila, da dove ha riassunto la posizione e la strategia USA in relazione alle dispute territoriali nella regione.

Questa imbarcazione, oltretutto, faceva parte della flotta della guardia costiera americana prima di essere acquistata nel 2011 dal governo filippino e oggi viene utilizzata proprio per pattugliare le aree rivendicate da Manila nel Mar Cinese Meridionale.

Obama ha ad ogni modo parlato dell’impegno del suo paese “per la sicurezza nelle acque della regione e per la libertà di navigazione”, annunciando poi la fornitura di altre due navi alla marina delle Filippine nel quadro di un piano da 250 milioni di dollari destinato ad “aumentare l’assistenza ai nostri alleati e ai nostri partner nella regione sul fronte della sicurezza marittima”.

I fondi stanziati saranno erogati in due anni e la fetta maggiore andrà proprio alle Filippine (79 milioni), seguite da Vietnam (40 milioni), Indonesia (20 milioni) e Malaysia (2,5 milioni), tutti paesi che sono tornati a manifestare apertamente le rispettive rivendicazioni territoriali nei confronti della Cina su istigazione degli Stati Uniti. L’aumentata “sicurezza marittima” a cui ha fatto riferimento martedì Obama non è infatti altro che un’escalation di provocazioni nel Mar Cinese Meridionale che minacciano di sfociare in pericolosi scontri militari nelle acque della regione.

L’irrigidimento delle posizioni americane a qualche anno dal lancio della “svolta” asiatica in funzione di contenimento della Cina si riflette sempre più nelle posizioni ufficiali degli “alleati” e dei “partner” nella regione evocati da Obama.

Se nel concreto questi paesi dell’Asia sud-orientale sembrano mantenere un’attitudine relativamente cauta verso Pechino, vista l’importanza della Cina per le loro economie, mostrano però anch’essi una pericolosa tendenza all’allineamento strategico sulle posizioni USA, quanto meno in questo frangente con un Obama in visita nella regione impegnato a elargire aiuti economici tutt’altro che trascurabili.

Qualche giorno fa, l’Indonesia, uno dei paesi fin qui più attenti a non prendere parte allo scontro tra Washington e Pechino, ha così minacciato di denunciare la Cina presso la Corte Permanente di Arbitrato de L’Aia se non saranno risolte pacificamente le dispute territoriali che mettono di fronte i due paesi, in questo caso per le isole Natuna, sempre nel Mar Cinese Meridionale.

Altrettanto prudente era stato in genere finora anche il governo della Malaysia, ma sabato scorso il vice primo ministro, Zahid Hamidi, nel corso di un discorso pubblico ha bollato come “infondate” le rivendicazioni cinesi su basi storiche nel Mar Cinese Meridionale.

Le provocazioni più significative nelle ultime settimane hanno visto tuttavia protagonisti proprio gli Stati Uniti, i quali continuano anche a incoraggiare una corsa agli armamenti tra i paesi del sud-est asiatico. Il mese scorso, Washington aveva inviato una nave da guerra all’interno delle acque territoriali delle isole Spratly, su cui la Cina afferma la propria sovranità pur essendo rivendicate dalle Filippine, e successivamente aveva autorizzato a volare sopra di esse dei bombardieri B-52.

Vari esponenti dell’amministrazione Obama e i vertici militari americani hanno assicurato che simili operazioni proseguiranno in futuro, malgrado la ferma reazione di Pechino. Gli USA fanno riferimento alla necessità di garantire la libertà di navigazione, lasciando intendere che quest’ultima sarebbe minacciata dalle rivendicazioni cinesi e dai lavori condotti su alcune isole nel Mar Cinese Meridionale.

Questa tesi è però assurda, visto che è proprio la Cina ad avere tutto l’interesse a difendere la libertà dei traffici commerciali nell’area. Da queste rotte vitali per Pechino transita infatti una parte molto consistente delle importazioni e delle esportazioni cinesi, mentre è piuttosto la presenza militare statunitense in svariati paesi della regione a rappresentare una potenziale minaccia, soprattutto in caso di esplosione di un conflitto tra le prime due potenze economiche del pianeta.

Uno dei più recenti accordi promossi da Washington per lo stazionamento di forze armate e navali è stato quello con le Filippine, siglato nella primavera del 2014, che prevede la concessione di alcune basi militari al personale americano. L’intesa, a cui si oppone la gran parte della popolazione filippina e sezioni della classe dirigente indigena preoccupate per il deterioramento dei rapporti con la Cina, è però al vaglio della Corte Suprema di Manila, in quanto violerebbe la Costituzione del paese asiatico che vieta la presenza a tempo indeterminato di soldati stranieri sul territorio nazionale.

Il regime cinese, da parte sua, continua intanto a mantenere un atteggiamento apparentemente pacato nei vertici internazionali, rispondendo raramente alle provocazioni americane. Il presidente Xi, ad esempio, mercoledì durante il summit APEC di Manila ha invitato i paesi membri a “promuovere un’atmosfera di pace” attraverso il dialogo e la cooperazione, senza fare alcun riferimento alle questioni aperte nel Mar Cinese Meridionale.

Soprattutto però, il leader cinese ha come al solito giocato la carta economica per cercare di logorare l’influenza USA e attrarre i paesi vicini sempre più nella propria orbita. Con un occhio anche al trattato di libero scambio sui generis denominato Partnership Trans-Pacifica (TPP), sottoscritto a ottobre tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi asiatici, del continente americano e dell’Oceania, Xi ha avanzato la causa di un trattato concorrente, ovvero la cosiddetta Area di Libero Scambio dell’Asia-Pacifico.

Pechino, ha fatto sapere Xi, intende insomma intensificare gli sforzi per mandare in porto svariati accordi di libero scambio. D’altra parte, la forza di attrazione del gigante cinese, nonostante il relativo rallentamento della crescita economica, rappresenta un formidabile ostacolo ai tentativi di integrare la regione in un sistema diplomatico-militare-economico guidato dalla declinante potenza americana.

A conferma di ciò, il presidente cinese ha citato il perfezionamento a portata di mano dell’accordo di libero scambio tra il suo paese e i membri dell’ASEAN, nonché trattati simili già siglati tra Pechino e due importanti alleati di Washington – Australia e Corea del Sud – che dovrebbero entrare in vigore entro la fine di quest’anno.

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