di Michele Paris

La visita a sorpresa nel fine settimana in Afghanistan del segretario di Stato americano, John Kerry, è giunta nel pieno della grave crisi politica che sta attraversando il fragile governo di “unità nazionale” del paese sotto occupazione USA dal 2001. Il capo della diplomazia statunitense ha cercato di invitare tutte le parti coinvolte a collaborare per il bene del paese, ribadendo la fiducia in un esecutivo che egli stesso aveva contribuito in maniera decisiva a far nascere nel 2014 dopo le ennesime elezioni contestate.

L’accordo che Kerry aveva mediato quasi due anni fa prevedeva l’affiancamento al presidente, Ashraf Ghani, della figura di un “chief executive” nella persona di Abdullah Abdullah, cioè il principale sfidante di Ghani nelle elezioni. I due avrebbero dovuto costituire una sorta di super-governo per superare le divisioni etniche e gli interessi di parte che minacciavano di far scivolare il paese nuovamente nella guerra civile.

Il ruolo assegnato a Abdullah non era previsto dalla costituzione afgana, così che alcune modifiche a quest’ultima avrebbero dovuto creare la posizione di primo ministro per legittimare l’intesa tra i due contendenti alla presidenza. Quello che era stato salutato nel 2014 come un successo della diplomazia USA è diventato però l’ennesimo incubo, soprattutto per la popolazione afgana, costretta a far fronte alle conseguenze della paralisi politica che ne è derivata, ma anche della consueta corruzione dilagante, dell’aggravamento della sicurezza interna e del persistere dello sfacelo dell’economia.

Sabato a Kabul, Kerry ha provato comunque a ostentare un qualche ottimismo o, per lo meno, ad assicurare i vertici politici afgani della fiducia dell’amministrazione Obama in un processo che, come hanno ammesso molti diplomatici occidentali alla stampa internazionale, non ha al momento alternative percorribili. Così, anche se la scadenza del governo di “unità nazionale” era stata fissata per il prossimo mese di ottobre, data in cui dovrebbero tenersi le elezioni parlamentari, già si parla di un quasi certo rinvio almeno alla primavera del 2017, vista l’assenza di progressi sulla riforma elettorale promessa.

Lo stesso Kerry ha affermato che il patto tra Ghani e Abdullah ha validità per tutto il mandato elettorale – cinque anni – e il governo in carica ha legittimità per proseguire con l’attuale formula, quindi anche senza modifiche alla Costituzione. La benedizione americana al gabinetto di Kabul non è necessariamente di buon auspicio per la stabilità afgana, anzi, il permanere dello stallo che ha caratterizzato questi mesi rischia di aggravare i già enormi problemi del paese ma, ancora una volta, per le forze di occupazione l’alternativa potrebbe risultare anche peggiore.

Qualche progresso o, meglio, la sopravvivenza di una struttura di governo a livello centrale con un livello minimo di legittimità agli occhi della comunità internazionale è d’altra parte condizione indispensabile per convincere i paesi occidentali già scettici a non interrompere il flusso di denaro che tiene in piedi l’economia dell’Afghanistan e le sue forze di sicurezza.

A Varsavia nel mese di luglio si terrà un importante summit della NATO nel quale dovrebbero essere discusse le modalità per finanziare il rafforzamento delle forze armate afgane, mentre a ottobre a Bruxelles sarà l’entità degli aiuti finanziari civili a essere al centro dell’attenzione. A sottolineare quanto siano cruciali questi appuntamenti per il futuro del governo-fantoccio di Kabul è stato Kerry nel fine settimana, quando nella conferenza stampa con il presidente Ghani ha inviato quest’ultimo ad “assicurarsi che tra oggi e i vertici di Varsavia e Bruxelles, l’Afghanistan si mantenga nella giusta direzione”.

Intanto, forse anche grazie alla presenza di Kerry a Kabul, sabato il parlamento afgano ha finalmente approvato la nomina di due membri del governo, il ministro dell’Interno e il Procuratore Generale, i quali, assieme al ministro della Difesa e al capo dell’intelligence, hanno ricoperto finora i loro incarichi in via provvisoria. Il nuovo ministro dell’Interno – generale Taj Mohammad Jahid – è un fedelissimo di Abdullah ed era stato nominato nel mese di febbraio in seguito alle dimissioni del suo predecessore.

Proprio una serie di dimissioni nelle ultime settimane ha ulteriormente indebolito il governo, contribuendo a intensificare le richieste di dimissioni rivolte a Ghani da parte di svariati leader dell’opposizione e di membri del precedente governo dell’ex presidente, Hamid Karzai.

La stabilità del governo di Kabul e la situazione relativa alla sicurezza interna influenzeranno poi la decisione di Washington di mantenere o ridurre il contingente di occupazione in Afghanistan, peraltro legata anche alle dinamiche strategiche in Asia centrale che appaiono in fase di riallineamento soprattutto riguardo la Cina e il Pakistan.

Obama aveva già congelato il numero di truppe USA a 9.800 per l’intero 2016, ma a partire dal 2017 gli uomini dovrebbero scendere a 5.500. I leader militari americani mettono però in guardia da mosse affrettate, se di fretta si può parlare dopo quasi 15 anni di occupazione, facendo notare come nell’ultimo periodo la situazione interna in Afghanistan sia nuovamente peggiorata. Kerry, da parte sua, ha affermato che la riduzione nel numero dei propri soldati non è in discussione, salvo poi vincolare ogni iniziativa al “parere” dei generali.

I Talebani sono tornati d’altronde a condurre operazioni con un certo successo, in taluni casi anche in maniera clamorosa, e controllano oggi circa un terzo del territorio afgano. I colloqui di pace con gli studenti del Corano appaiono inoltre in alto mare, nonostante Kerry abbia rinnovato una vaga offerta di sedersi al tavolo delle trattative con gli “insorti” nel corso della sua visita.

La precarietà degli scenari afgani e le prospettive ben poco rosee per il futuro di questo paese sono apparse evidenti proprio subito dopo la partenza di Kerry da Kabul, quando un paio di esplosioni hanno colpito il quartiere diplomatico della capitale.

Al di là delle dichiarazioni ottimistiche e degli inviti, seguiti da immancabili promesse, alla costruzione di istituzioni democratiche in Afghanistan, il bilancio della più lunga guerra della storia americana continua a essere rovinoso. Gli stessi giornali ufficiali negli USA faticano a nascondere una realtà che, nelle parole ad esempio del Washington Post, è fatta prevalentemente di “illegalità, corruzione” ed “espansione dell’influenza dei Talebani”.

Il caso della provincia meridionale di Helmand è emblematico del fallimento del progetto americano di stabilizzazione dell’Afghanistan a oltre 14 anni dall’invasione seguita agli attentati dell’11 settembre 2001. Un’indagine pubblicata settimana scorsa dal New York Times ha messo in luce come Helmand continui a fornire i due terzi dell’eroina prodotta in Afghanistan, paese da cui a sua volta proviene il 90% del totale consumato nel pianeta.

In questa provincia, per quest’anno non è in programma nessuna operazione per sradicare le coltivazioni della materia prima destinata alla produzione di eroina, il papavero da oppio, a causa dell’avanzata dei Talebani ma anche della corruzione “fuori controllo”.

La marcia indietro rispetto agli sforzi del 2014 e del 2015 è dovuta infatti principalmente proprio agli interessi  economici che sostengono la coltivazione del papavero da oppio, la quale consente a molti uomini di potere, sia a livello locale che a Kabul, sia tra i Talebani che gli esponenti del governo, di intascare centinaia di migliaia, se non milioni, di dollari.

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