di Michele Paris

Le manovre all’interno del Partito Repubblicano per impedire a Donald Trump di conquistare la nomination nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti si stanno intensificando in previsione delle ultime primarie e della convention nazionale del mese di luglio. La sfida sembra però essersi ormai spostata in buona parte dagli appuntamenti con le urne delle prossime settimane alle iniziative in atto per il controllo dei delegati del partito che, vista la natura della sfida tra i Repubblicani in questo 2016, potrebbero essere chiamati a decidere in prima persona il nome del candidato alla Casa Bianca.

Lo scontro si è aggravato dopo che Trump ha mostrato evidenti segni di vulnerabilità di fronte agli attacchi dei rivali interni, ovvero praticamente tutti i vertici Repubblicani e i grandi finanziatori del partito. La netta sconfitta nelle primarie del Wisconsin della settimana scorsa, in particolare, è stata assieme la dimostrazione dell’efficacia della campagna anti-Trump e il catalizzatore dei nuovi sforzi messi in atto per fermare lo slancio del miliardario di New York.

Se Trump continua ad avere ottime possibilità di vincere il 19 aprile nel suo Stato e nelle successive primarie in vari stati del nord-est, la maggior parte degli osservatori ritiene che l’esito più probabile, una volta esaurito il calendario elettorale, sarà l’assenza di un candidato in grado di presentarsi alla convention di Cleveland con la maggioranza assoluta dei delegati, cioè la soglia necessaria per incassare automaticamente la nomination del partito.

Le primarie e i “caucuses” dei due principali partiti politici americani prevedono che gli elettori scelgano in ogni singolo stato non direttamente il candidato alla presidenza, bensì un certo numero di delegati da inviare alla convention del partito, dove saranno loro a votare per l’assegnazione della nomination.

Le regole del Partito Repubblicano, così come in larga misura quelle del Partito Democratico, prevedono che, durante la prima votazione alla convention, il 95% dei delegati provenienti da tutto il paese sia tenuto a dare la propria preferenza in base al risultato delle primarie o dei “caucuses” nei rispettivi stati. La prima votazione riflette così fedelmente l’esito delle elezioni dei mesi precedenti o, meglio, la distribuzione dei delegati che esse hanno decretato.

Se, però, nessun candidato si è assicurato durante primarie e “caucuses” il 50% più uno dei delegati in palio, la prima votazione si risolverà quasi certamente senza l’assegnazione della nomination. In tal caso, alla seconda tornata il 60% dei delegati alla convention può votare per il candidato preferito senza alcun vincolo. Alla terza, poi, la quota di delegati svincolati dal voto delle primarie sale all’80% e così via.

Su questo scenario puntano dunque i leader Repubblicani e i candidati che inseguono Trump – il senatore del Texas, Ted Cruz, e il governatore dell’Ohio, John Kasich – e a tale fine hanno creato strategie relativamente insolite che stanno diventando sempre più chiare in queste settimane.

Il Washington Post ha scritto mercoledì che Cruz e il suo staff sono ormai praticamente certi dell’impossibilità per Trump di ottenere la nomination in un’eventuale seconda votazione alla convention, obbligandolo quindi a raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati al termine di primarie e “caucuses”.

Se ciò dovesse corrispondere al vero, questo risultato sarebbe determinato dall’opera, ancora in corso, degli uomini di Cruz nelle più o meno oscure assemblee locali e statali, nelle quali si è iniziato a scegliere i delegati da inviare alla convention di Cleveland.

In tornate elettorali nelle quali emerge precocemente il favorito alla nomination, queste procedure richiamano ben poca attenzione, ma risultano importanti quando prevale l’equilibrio o, come quest’anno, si prevede che nessun candidato possa ottenere la maggioranza dei delegati in palio.

Le sezioni statali del Partito Repubblicano selezionano in vari stadi i delegati che voteranno alla convention nazionale e se, come già spiegato, essi sono vincolati all’esito di primarie o “caucuses” nella prima votazione, in seguito potranno votare secondo le loro preferenze. Per questa ragione, i candidati alla nomination hanno deciso di intervenire per cercare di influenzare i meccanismi delle assemblee locali, così da cercare di fare eleggere delegati che votino per loro a partire dalla seconda elezione alla convention.

Trump, in realtà, ha mostrato una grave impreparazione in questo ambito, mentre Cruz sta avendo un successo decisamente maggiore. Il senatore ultra-conservatore del Texas ha infatti da tempo costruito una struttura organizzativa capillare ed efficiente in molti stati che sta tornando utile in questo frangente. Trump, al contrario, ha puntato fin dall’inizio sulla sua immagine e sul web, tralasciando i dettagli di una campagna che potrebbe giocarsi proprio su meccanismi di selezione enigmatici e quasi sempre trascurati.

In definitiva, i delegati di parecchi stati potrebbero essere sostenitori di Ted Cruz anche se alla prima votazione alla convention saranno tenuti a votare Trump. Cruz, ad esempio, si è assicurato l’appoggio della maggioranza dei delegati eletti recentemente in Colorado, North Dakota e Iowa. A suo favore dovrebbero impegnarsi, in caso di mancato successo di Trump alla prima votazione, anche un nutrito numero di delegati che verranno selezionati a breve in stati come Indiana, Wyoming e Arkansas.

A sostenere questa campagna anti-Trump è anche l’organizzazione “Our Principles”, una “Super PAC” (“Political Action Committee”) che ha come unico obiettivo quello di far naufragare la corsa del favorito Repubblicano. Le “Super PAC” sono organi previsti dalla legge elettorale USA che hanno la facoltà di raccogliere e spendere cifre illimitate a sostegno di una causa particolare o di un determinato candidato, a patto che non coordinino direttamente con quest’ultimo le loro attività.

La maggior parte dei dollari spesi finora da “Our Principles” è andata a finanziare campagne pubblicitarie per screditare Trump, ma recentemente un certo flusso di denaro è stato destinato anche alle operazioni descritte in precedenza per evitare la selezione di delegati intenzionati a sostenere l’uomo d’affari newyorchese. Per quest’ultimo scopo sono stati spesi finora meno di 100 mila dollari, contro svariati milioni in spot televisivi e su internet. Una simile voce di spesa è però decisamente insolita, o addirittura inedita, per una “Super PAC”.

Trump, da parte sua, non è rimasto a guardare il coalizzarsi di forze a lui ostili nel proprio partito. In alcune apparizioni pubbliche, questa settimana ha sparato a zero contro l’establishment Repubblicano. Il sistema di regole che Cruz sta sfruttando è stato ad esempio definito “truccato” e fatto apposta per “escludere” determinati candidati. Su FoxNews è invece tornato a prospettare possibili disordini nel caso la nomination dovesse essergli sottratta alla convention, ovvero assegnata a un candidato che non ha ottenuto la maggioranza delle preferenze e dei delegati durante primarie e “caucuses”.

Al di là dell’esito finale della sfida Repubblicana, i toni dello scontro, le manovre in atto per ostacolare Donald Trump e lo stesso emergere di quest’ultimo come serio contendente alla Casa Bianca testimoniano dello stato di profonda crisi che sta attraversando il partito.

L’emergenza Trump a cui l’apparato di potere Repubblicano sta cercando di far fronte è d’altra parte il risultato di decenni di costante spostamento a destra del partito, assieme all’intero panorama politico americano, e della promozione di forze reazionarie. A tutto ciò vanno aggiunti il persistere degli effetti della crisi economica e il crescente discredito della classe politica di Washington; fattori che hanno finito per lanciare forse per la prima volta negli Stati Uniti un candidato per molti versi dalle caratteristiche di stampo apertamente fascista.

Se anche Trump verrà fermato prima della conquista della nomination, ad ogni modo, la battaglia tra i Repubblicani non potrà che lasciare strascichi pesantissimi in vista del voto di novembre, col rischio forse di spaccare il partito e, quasi certamente, di consegnare la Casa Bianca nuovamente ai Democratici.

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