di Mario Lombardo

Il risultato delle elezioni presidenziali di lunedì nelle Filippine è stato probabilmente accolto negli Stati Uniti con una certa apprensione per il futuro delle relazioni bilaterali con l’alleato asiatico e del disegno strategico in atto per cercare di contenere l’espansionismo cinese. Se il presidente eletto, Rodrigo Duterte, non è certo un nemico di Washington, né intende rinnegare gli accordi sottoscritti tra i due paesi negli ultimi anni sotto la presidenza di Benigno Aquino, i suoi precedenti e la condotta tenuta in campagna elettorale rendono però complicata qualsiasi previsione circa gli orientamenti della sua nascente amministrazione.

Duterte è stato sindaco per più di vent’anni della città di Davao, nelle Filippine meridionali, durante i quali si sono accumulate nei suoi confronti accuse di violazioni dei diritti umani. Il neo-presidente filippino è stato ad esempio indicato come il facilitatore di squadre della morte, responsabili, secondo stime di alcune organizzazioni non governative, dell’assassinio extra-giudiziario di oltre mille presunti criminali, minori inclusi.

La sua campagna elettorale è stata segnata da numerose uscite offensive nei riguardi di molti, dalle vittime di stupri ai governi di paesi come USA, Australia e Cina. Duterte, inoltre, non ha mai rinnegato il proprio passato da “poliziotto” a Davao, anzi, per convincere gli elettori ha puntato precisamente sulla lotta al crimine con ogni mezzo, arrivando addirittura a minacciare di gettare 100 mila cadaveri di criminali nella Baia di Manila o di uccidere i lavoratori che dovessero provare a creare un sindacato nelle zone franche che intende creare per favorire le esportazioni e attirare capitali dall’estero.

Nonostante le Filippine vengano dipinte dalla stampa e dagli ambienti finanziari internazionali come un modello, grazie a una crescita economica attestata a una media del 6,2% nei sei anni di presidenza Aquino, la realtà per decine di milioni di persone continua a essere ben poco incoraggiante. Duterte, da abile populista di destra, ha saputo cavalcare il malumore degli elettori verso una classe dirigente incompetente e ultra-corrotta, presentandosi come un outsider in grado di risolvere i problemi del paese, se necessario con il pugno di ferro.

La sua candidatura è per certi versi paragonabile a quella di Donald Trump negli Stati Uniti e, come quello del miliardario newyorchese, anche il successo dell’ex sindaco di Davao ed ex procuratore è in sostanza il risultato dello spostamento a destra e del progressivo ricorso a politiche anti-democratiche da parte della classe dirigente del suo paese in un clima di crescenti tensioni sociali.

Rodrigo Duterte ha in ogni caso raccolto quasi il 39% dei consensi nelle elezioni di lunedì, beneficiando della legge elettorale filippina a turno unico che premia il candidato presidente in grado di ottenere la maggioranza semplice dei voti espressi. Come già anticipato, Duterte è una sorta di incognita per Washington, da dove le presidenziali nelle Filippine devono essere state seguite con particolare interesse.

I candidati preferiti dagli USA erano il favorito del presidente Aquino, l’ex ministro dell’Interno Mar Roxas, e, in seconda battuta, la ex cittadina americana, Grace Poe. Questi due candidati si sono fermati rispettivamente al 23% e al 22%, davanti al vice-presidente uscente, Jejomar Binay (13%). Tra gli aspiranti alla presidenza, quest’ultimo era quello che maggiormente auspicava un approccio più equilibrato nei confronti della Cina e, dopo essere stato a lungo in vantaggio nei sondaggi, la sua candidatura è stata di fatto affondata da una serie di scandali in cui è stato opportunamente coinvolto.

Lunedì si è votato anche per la carica di vice-presidente che, nelle Filippine, viene assegnata separatamente da quella di presidente. I dati non ancora definitivi indicano un testa a testa tra la candidata del Partito Liberale di Aquino, Leni Robredo, data in leggero vantaggio, e Ferdinand “Bongbong” Marcos, senatore e figlio dell’omonimo ex dittatore filippino.

L’interesse per il voto nelle Filippine deriva principalmente dal fatto che il governo di questo paese negli ultimi anni ha rappresentato uno dei punti di riferimento della politica asiatica dell’amministrazione Obama. Durante la presidenza Aquino, Manila è stata in prima linea nel confronto con Pechino, focalizzato sulle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, alimentate proprio da Washington.

Oltre a svariati episodi che hanno messo di fronte le flotte commerciali e militari dei due paesi, la disputa ha registrato una grave escalation da parte delle Filippine con la presentazione di un esposto presso il tribunale dell’ONU a L’Aia, in Olanda, per dichiarare nulle le rivendicazioni cinesi in base alla Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS). La denuncia è stata sollecitata direttamente dagli USA, i quali non hanno peraltro mai sottoscritto la Convenzione, e un eventuale verdetto contrario alla Cina sarà utilizzato per esercitare ulteriori pressioni e provocazioni nei confronti di Pechino.

Proprio l’atteggiamento che Duterte terrà verso la Cina dopo il verdetto del tribunale ONU, atteso nelle prossime settimane, servirà agli Stati Uniti per giudicare l’amministrazione entrante a Manila. Non solo, il governo del nuovo presidente dovrà di fatto implementare anche l’accordo di cooperazione militare stipulato da Aquino con Washington e che prevede l’accesso a un certo numero di basi nelle Filippine da parte delle forze navali della ex potenza coloniale.

Il trattato aveva sollevato seri dubbi di costituzionalità ma la Corte Suprema filippina ha alla fine dato la propria approvazione, anche grazie alla presenza al proprio interno di giudici nominati dal presidente Aquino. L’amministrazione Obama considera questo accordo fondamentale nel quadro della propria strategia di accerchiamento militare della Cina.

Le riserve americane nei confronti di Rodrigo Duterte non riguardano dunque le sue inclinazioni tendenti al fascismo o i precedenti crimini commessi dal neo-presidente. Piuttosto, a sollevare più di una perplessità a Washington sono le dichiarazioni contrastanti rilasciate negli ultimi mesi e che al momento non lasciano intravedere una chiara idea dell’atteggiamento che Duterte prediligerà in ambito strategico.

Oltre che a una personalità vulcanica e imprevedibile, l’ambivalenza mostrata dal presidente eletto delle Filippine dipende anche e soprattutto da fattori oggettivi che hanno a che fare con l’importanza per il suo paese sia della partnership con gli Stati Uniti sia, e forse ancor più, dei legami economici con la Cina. Questo dilemma assilla in definitiva le classi dirigenti di tutti i paesi asiatici coinvolti in qualche modo nei meccanismi della rivalità tra USA e Cina.

Per queste ragioni, Duterte ha oscillato spesso in campagna elettorale tra posizioni filo-americane e altre molto più concilianti verso Pechino. Ad esempio, in varie occasioni si è mostrato pronto a prendere iniziative per favorire gli investimenti cinesi nelle Filippine, mentre sul fronte delle dispute territoriali è sembrato appoggiare alternativamente entrambi gli estremi del dibattito in corso.

Soltanto settimana scorsa aveva sposato un’ipotesi sgradita a Washington, mostrando la sua disponibilità a condurre colloqui bilaterali con Pechino per risolvere la crisi riguardante il Mar Cinese Meridionale. Subito dopo il voto, invece, Duterte ha operato una svolta di 180 gradi, optando per una soluzione questa volta invisa alla Cina, appoggiando cioè negoziati multilaterali che dovrebbero includere, oltre ai due paesi direttamente interessati, anche gli USA, il Giappone e l’Australia.

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