di Michele Paris

Con un annuncio ufficiale in diretta televisiva del primo ministro iracheno, Haider al-Abadi, è iniziata l’attesa offensiva militare per la riconquista di Mosul, città da due milioni di abitanti e roccaforte dello Stato Islamico (ISIS/DAESH) in Iraq. A partecipare all’operazione, oltre all’esercito di Baghdad, sono le forze della regione autonoma del Kurdistan iracheno, milizie sciite fedeli al governo centrale e contingenti di varia entità e con ruoli diversi di alcuni paesi occidentali, a cominciare ovviamente dagli Stati Uniti.

A Washington, il governo e la stampa ufficiale hanno salutato con entusiasmo la campagna per “liberare” la città irachena dai terroristi islamici, lasciando chiaramente intendere che nell’assedio imminente varrà la pena sacrificare migliaia o decine di migliaia di vittime civili. L’attacco è certamente necessario per infliggere un colpo decisivo all’ISIS/DAESH e giunge semmai con ritardo rispetto alle necessità, ma c’è da sottolineare come l’elemento relativo ai “danni collaterali” venga, nell’occasione, taciuto.

Al contrario, le operazioni condotte ad Aleppo in Siria dall’esercito di Damasco, dall’aviazione russa e dalle forze speciali iraniane e di Hezbollah, a tutti gli effetti rivolte ugualmente per la definitiva liberazione della città dagli elementi fondamentalisti che minacciano l’integrità di uno stato sovrano, continuano a essere condannate come crimini di guerra dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

L’offensiva per liberare Mosul, presentata brevemente nelle primissime ore di lunedì dal premier iracheno in abiti militari e affiancato da alti ufficiali dell’esercito, vedrà impegnati complessivamente circa 30 mila uomini, supportati dalle forze aeree americane. Nelle fasi iniziali, un ruolo importante è stato assegnato a 4 mila “peshmerga” curdi, incaricati della riconquista di una decina di villaggi che circondano Mosul.

Nei dintorni della città, da settimane sono state già ammassate truppe in vista dell’assalto e per impedire la fuga degli uomini dell’ISIS/DAESH verso la Siria. Come ha spiegato lunedì il New York Times, in un secondo momento saranno le forze dell’anti-terrorismo, già protagoniste della “liberazione” di Ramadi e Falluja nel dicembre del 2015 e nel giugno di quest’anno, a guidare l’attacco nel cuore della città, in appoggio alle forze regolari irachene.

Proprio la distruzione e la crisi umanitaria seguite alla cacciata dell’ISIS/DAESH da queste due città irachene fa prevedere una nuova catastrofe a Mosul. Le Nazioni Unite hanno avvertito che 200 mila residenti potrebbero essere costretti a lasciare le loro abitazioni solo nei primi giorni dell’attacco, generando una situazione drammatica, viste anche le inadeguate misure adottate dal governo di Baghdad per accoglierli.

Per la coordinatrice ONU degli aiuti umanitari in Iraq, Lise Grande, la crisi che rischia di scaturire da Mosul potrebbe essere la più complessa affrontata quest’anno dalla comunità internazionale, essendo previsti fino a un milione di civili in fuga dai combattimenti.

Solo giovedì scorso, la diplomatica americana stimava in un miliardo di dollari il costo per lo sforzo umanitario diretto ad assistere un milione di persone. Fino ad ora, però, la sua agenzia ha ricevuto fondi pari ad appena 230 milioni, mentre i campi di accoglienza già allestiti in Iraq sono in grado di ospitare non più di 50 mila persone. In previsione dello scenario che potrebbe presentarsi, per cercare di evitare l’esodo il governo iracheno ha lanciato migliaia di volantini su Mosul, invitando in maniera crudele i civili a restare nelle proprie case durante i combattimenti.

Sempre gli esempi di operazioni anti-ISIS/DAESH, come quella condotta a Falluja, lasciano comunque pochi dubbi sull’esito dell’offensiva, sia in termini di vittime civili sia per la distruzione di abitazioni e infrastrutture. D’altra parte, media e governi coinvolti nelle manovre militari insistono da tempo sull’efferatezza degli uomini del “califfato”, per annientare i quali sarà perciò giustificata qualsiasi strage.

Mosul è la seconda città irachena per numero di abitanti e la sua popolazione è a maggioranza sunnita, anche se qui erano presenti consistenti minoranze sciite e cristiane. La sua caduta nelle mani di guerriglieri jihadisti provenienti dalla vicina Siria nel giugno del 2014 sconvolse il governo di Baghdad, il cui esercito, costruito e addestrato con l’appoggio americano, abbandonò le proprie postazioni praticamente senza opporre resistenza.

L’avanzata dell’ISIS/DAESH fu possibile anche grazie al favore iniziale di una parte dei residenti sunniti della città, ostili al governo centrale sciita. Proprio le persistenti divisioni settarie, che caratterizzano l’Iraq del dopo invasione USA, rischiano di aggiungere un altro motivo di preoccupazione per i civili di Mosul.

Le potenti milizie sciite che dovrebbero partecipare all’offensiva anti-ISIS/DAESH sono state infatti accusate di vari crimini nel corso delle precedenti operazioni in località a maggioranza sunnita. Torture, esecuzioni sommarie e rapimenti sono stati documentati in vari casi nelle città liberate dagli uomini del “califfato”, come ad esempio a Falluja.

Per cercare di evitare il ripetersi di questi episodi, il governo di Baghdad avrebbe deciso di tenere il più lontano possibile da Mosul le cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare, di cui fanno parte decine di milizie armate in gran parte sciite.

Nella nuova battaglia contro il terrorismo islamico appena iniziata a Mosul c’è dunque da attendersi resoconti giornalistici e dichiarazioni ufficiali di governi occidentali e mediorientali complessivamente favorevoli all’operazione di riconquista della città. Come ricordato in precedenza, questa retorica contrasta con quella che sta accompagnando il tentativo di liberazione di Aleppo dalle forze di opposizione anti-Assad dominate dalla filiale siriana di al-Qaeda.

La differenza tra le due operazioni, caratterizzate entrambe dall’estrema sofferenza dei civili, è che ad Aleppo i fondamentalisti che resistono nei quartieri orientali della città sono di fatto sostenuti dagli USA e dai loro alleati in un conflitto orchestrato per rovesciare un regime ostile e alleato di Russia e Iran.

A Mosul, invece, le forze estremiste che controllano la città sotto insegne diverse rappresentano una minaccia per la stabilità di un governo, come quello iracheno, che, nonostante l’avvicinamento in questi anni a Teheran, continua a essere una pedina fondamentale della strategia americana in Medio Oriente.

Così stando le cose, per quante atrocità saranno commesse dalle forze di “liberazione” nella città irachena nelle prossime settimane e, molto probabilmente, nei prossimi mesi, esse saranno puntualmente giustificate dalla propaganda ufficiale come necessari e inevitabili “danni collaterali”.

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