di Michele Paris

Nella giornata di giovedì, il primo ministro giapponese Shinzo Abe è stato il primo leader di un paese straniero a incontrare di persona il presidente eletto degli Stati Uniti. Nonostante la confusione che ha caratterizzato la preparazione logistica del faccia a faccia, dovuta al caos in cui versa il processo di transizione verso la Casa Bianca in atto, la scelta di Donald Trump di dare udienza al premier nipponico prima di qualsiasi altro leader mondiale è tutt’altro che casuale e risponde soprattutto all’apprensione diffusasi rapidamente a Tokyo in seguito al risultato delle presidenziali americane di martedì scorso.

Abe era già stato tra i primissimi capi di stato o di governo a parlare con Trump nelle ore immediatamente successive alla sua vittoria su Hillary Clinton. I due avevano stabilito di incontrarsi a New York il prima possibile, in modo da permettere ad Abe di verificare di persona la predisposizione verso il suo paese del neo-presidente, protagonista in campagna elettorale di uscite non esattamente confortanti per la classe dirigente giapponese.

Nei pochi discorsi tenuti in campagna elettorale sulle questioni di politica estera, il populismo di Trump si era scagliato, tra gli altri, anche sull’alleato nipponico. Ad esempio, l’allora candidato Repubblicano non aveva usato giri di parole per accusare il governo di Tokyo di “manipolare” la propria valuta, al fine di favorire le esportazioni. Inoltre, Trump aveva minacciato di ritirare le truppe americane dal Giappone o di privare l’alleato asiatico dello scudo nucleare di Washington a meno che quest’ultimo non avesse accettato di contribuire maggiormente alle spese militari sostenute dagli USA.

Trump si era anche spinto a ipotizzare che il Giappone e la Corea del Sud avrebbero dovuto creare il proprio arsenale nucleare, in modo da provvedere per conto loro alla difesa da ipotetiche minacce cinesi o nordcoreane. Particolare ansia aveva generato inoltre negli ambienti di governo in Giappone l’opposizione di Trump al trattato di libero scambio TPP (Partnership Trans Pacifica), su cui Abe aveva puntato per rivitalizzare l’economia del suo paese.

Il probabile naufragio del TPP dopo l’elezione di Trump sta avendo un fortissimo impatto sul governo Abe, poiché il primo ministro aveva speso buona parte del suo capitale politico per farlo digerire al business giapponese, in particolare a quello rurale che rappresenta la tradizionale base di potere del suo Partito Liberal Democratico (LDP).

La promessa di congelare il TPP corrisponde all’orientamento protezionistico ostentato da Trump, anch’esso temuto da Tokyo, dal momento che l’applicazione di eventuali tariffe doganali finirebbe per penalizzare fortemente le aziende giapponesi, per le quali gli Stati Uniti sono il terzo mercato delle loro esportazioni, dopo Cina e Unione Europea.

I timori provocati da queste prese di posizione di Trump, sommati alle speranze frustrate per una vittoria di Hillary Clinton che appariva quasi certa, hanno prodotto a Tokyo una lunga serie di dichiarazioni volte ad affermare il vincolo che lega Giappone e Stati Uniti, ma anche a garantire la disponibilità del governo Abe a lavorare in armonia con la nuova amministrazione Repubblicana.

Lo stesso Abe, prima di lasciare Tokyo per Washington questa settimana, ha ribadito alla stampa domestica che l’alleanza con gli Stati Uniti è il “fondamento” della diplomazia e della sicurezza del Giappone. Un consigliere del primo ministro aveva poi detto alla Reuters che quest’ultimo avrebbe ricordato a Trump “l’importanza dell’alleanza nippo-americana”, non solo per i due paesi ma “per l’intera regione indo-pacifica” se non, addirittura, per gli equilibri del pianeta.

Questo stesso consigliere del premier giapponese giovedì ha anche sostenuto di avere incontrato vari uomini dell’entourage di Trump a partire da lunedì a New York, dove era stato inviato per preparare l’incontro con Abe, e tutti lo avrebbero invitato a non prendere alla lettera le dichiarazioni sulla politica estera rilasciate in campagna elettorale dal presidente eletto.

Anche i consiglieri di Trump, se pure non si sono espressi ufficialmente sulla direzione che potrebbero prendere i rapporti con i tradizionali alleati americani, alla vigilia della trasferta newyorchese del primo ministro giapponese hanno anticipato per lo più in forma anonima alla stampa che il neo-presidente intende riaffermare l’impegno a lungo termine degli USA in Asia orientale.

Tutte queste rassicurazioni sembrano suggerire uno stato d’animo tutt’altro che disteso, soprattutto a Tokyo, e lasciano appunto intuire come la classe dirigente giapponese sia in agitazione per i possibili riflessi di una svolta isolazionista di Washington dopo i proclami e le iniziative asiatiche in funzione anti-cinese dell’amministrazione Obama.

Se, a ben vedere, la traiettoria del governo Abe in questi anni ha delineato un percorso potenzialmente indipendente nei confronti degli Stati Uniti, attraverso l’impulso al militarismo o, ad esempio, il tentativo di dialogo con la Russia, una simile evoluzione è tutt’al più ipotizzabile in un lontano futuro. Per ora, le élites nipponiche continuano a vedere nella partnership con gli Stati Uniti il mezzo imprescindibile per la promozione dei propri interessi.

Per una parte di esse, come sta accadendo in altri paesi del continente asiatico, la forza di attrazione della Cina è tuttavia enorme e, pur aborrendo un qualsiasi sganciamento da Washington, vi sono voci che auspicano un atteggiamento più equilibrato nei confronti di Pechino, vista l’importanza dei legami economici, finanziari e commerciali.

A queste tendenze Abe ha probabilmente fatto riferimento in maniera obliqua durante un recente intervento di fronte alla speciale commissione per il TPP della camera alta del Parlamento di Tokyo (Dieta). Il primo ministro ha avvertito che la morte del trattato guidato dagli Stati Uniti determinerebbe un drammatico riorientamento delle priorità commerciali - e, di conseguenza, strategiche - del Giappone.

Tokyo potrebbe cioè considerare prioritari i negoziati per la ratifica della cosiddetta Partnership Economica Globale Regionale (RCEP), ovvero un trattato di libero scambio considerato alternativo al TPP da cui sono esclusi gli USA e che include i paesi dell’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) più Cina, Australia, India, Corea del Sud, Nuova Zelanda e, appunto, Giappone.

Senza dubbio, Abe avrà spiegato questa ipotesi a Trump nel corso del loro incontro di giovedì, così come il premier giapponese avrà ricordato le implicazioni di un eventuale disimpegno, sia pure relativo, degli Stati Uniti in Asia, a cominciare dall’occupazione da parte della Cina degli spazi lasciati liberi da Washington.

Le iniziative concrete che l’amministrazione entrante a Washington metterà in atto in questo come in altri ambiti saranno comunque da verificare, anche a seconda della scelta degli uomini che condurranno la politica estera americana, ma è legittimo immaginare che gli elementi di conflitto tra i due alleati, rivelatisi solo a tratti negli ultimi anni e a causa soprattutto dell’impronta ultra-nazionalistica del governo Abe, possano intensificarsi durante la presidenza Trump.

Ciò potrebbe portare a un rimescolamento degli scenari strategici in un’area cruciale del pianeta, oggetto di sforzi significativi ma spesso infruttuosi da parte dell’amministrazione Obama, dando con ogni probabilità ancora maggiori spazi di manovra anche agli elementi più estremi e destabilizzanti all’interno della destra di governo giapponese.

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