di Michele Paris

Con l’avvicinarsi del passaggio di consegne alla Casa Bianca tra Barack Obama e Donald Trump, il livello di isteria anti-russa negli Stati Uniti continua ad aumentare esponenzialmente in un quadro politico attraversato da profonde divisioni circa le priorità strategiche della classe dirigente americana. Le sanzioni contro Mosca decise dall’amministrazione Democratica uscente poco prima di Capodanno non hanno placato la rabbia del fronte anti-russo, il quale chiede ulteriori interventi in questo senso per rendere sempre più complicato l’eventuale processo di distensione tra le due potenze nucleari promesso dal neo-presidente Repubblicano.

Nonostante la propaganda amplificata da media e politici americani, la natura delle accuse rivolte al governo del presidente Putin per avere interferito nelle elezioni presidenziali americane del novembre scorso continua ad apparire tutta politica. Delle presunte responsabilità del Cremlino e dei servizi segreti russi non è stata infatti presentata finora una sola prova concreta.

Gli stessi giornali d’oltreoceano che stanno conducendo questa battaglia sono quasi sempre costretti ad ammettere, quanto meno tra le righe, come non vi sia evidenza dell’identità degli autori dei cyber-attacchi contro i sistemi informatici americani descritti da molte settimane a questa parte.

Titoli sensazionalistici che assicurano come sia in atto una gigantesca aggressione informatica da parte di Mosca anticipano in realtà soltanto dubbie rivelazioni che si basano su dichiarazioni di esponenti dell’apparato della sicurezza nazionale USA, quasi sempre anonimi, o di compagnie private che operano nel campo della sicurezza informatica, con interessi economici direttamente connessi allo smascheramento dei responsabili delle intrusioni.

A quasi 14 anni dall’invasione dell’Iraq, la campagna in corso contro la Russia sembra così assumere sempre più le sembianze di quella che venne scatenata dall’amministrazione Bush e da media compiacenti, compresi quelli “liberal” come il New York Times, per fabbricare l’esistenza di armi di distruzione di massa nel paese mediorientale, pronte a essere utilizzate dal regime di Saddam Hussein.

La caccia alle streghe a cui si sta assistendo non è però condivisa da tutto il panorama politico, militare, dell’intelligence e del business negli Stati Uniti. Anzi, proprio l’amministrazione entrante di Donald Trump fa capo a una fazione dell’apparato di potere che, pur non essendo caratterizzata da particolari predisposizioni pacifiste, vede almeno per ora con preoccupazione l’aggravamento dei rapporti con la Russia registrata durante la presidenza Obama. Ciò perché, dalla loro prospettiva, lo scontro con Mosca non fa che distogliere attenzioni e risorse dal vero nemico degli USA su scala planetaria, ovvero la Cina.

Come già anticipato, è esattamente la possibilità di un riavvicinamento tra Washington e Mosca fatta intravedere da Trump che sta alimentando i continui blitz mediatici contro il Cremlino. L’obiettivo di questa parte dell’establishment USA è quello di avvelenare il più possibile i rapporti bilaterali, in modo da ostacolare un possibile disgelo che potrebbe avere luogo su questioni cruciali come la lotta al terrorismo, la guerra in Siria o l’espansione della NATO in Europa orientale.

In altre parole, dal punto di vista dell’amministrazione Obama e di coloro che a essa sono allineati sulla Russia, come sarà possibile per Trump raggiungere un qualche accordo con Putin se quest’ultimo è intervenuto in maniera così palese e illegale nel processo elettorale americano ? O ancora, come potrà Putin giustificare un’intesa con Washington essendo in vigore pesanti sanzioni contro il suo paese ?

L’eccezionalità delle accuse rivolte alla Russia dimostra in ogni caso quanto sia alta la posta in gioco in questo confronto sulla direzione strategica che dovranno tenere gli Stati Uniti nel post-Obama. Eccezionali sono anche le divisioni tra i due campi, visto anche che lo stesso Trump si troverà a far fronte non solo alla grande maggioranza del Partito Democratico ma anche a una buona parte dei suoi colleghi Repubblicani.

Uno dei senatori più legati all’apparato militare americano, l’ex candidato alla Casa Bianca John McCain, continua ad esempio a essere in prima linea nella battaglia contro Mosca, in netta contrapposizione con il presidente eletto del suo partito. McCain, a cavallo del Capodanno, è stato protagonista di una trasferta in Ucraina e nei paesi Baltici assieme ai senatori Lindsey Graham (Repubblicano) e Amy Klobuchar (Democratica).

Durante la trasferta, i tre hanno ribadito il sostegno americano a regimi di destra e ferocemente anti-russi alla luce della presunta aggressività di Mosca. Lo stesso McCain ha poi auspicato un atteggiamento ancora più duro nei confronti di Putin e chiesto nuove sanzioni contro la Russia, giudicando insufficienti l’espulsione di 35 diplomatici e la chiusura di due strutture russe negli Stati Uniti, ordinate settimana scorsa da Obama.

La commissione Forze Armate del Senato, presieduta da McCain, ha inoltre fissato per giovedì un’udienza sui cyber attacchi attribuiti alla Russia, durante la quale testimonieranno, tra gli altri, il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, e il numero uno dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), ammiraglio Mike Rogers.

Eventi come questo dovrebbero contribuire a tenere alto il livello di attenzione sulla questione russa, mentre già si profilano scontri tra la Casa Bianca e il Congresso. Il deputato Democratico della California, Adam Schiff, membro della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti, in una recente intervista a ABC News ha assicurato che il suo partito e la maggioranza Repubblicana si impegneranno per impedire a Trump di cancellare le sanzioni applicate alla Russia dall’amministrazione Obama. In maniera minacciosa, lo stesso deputato ha poi invitato il neo-presidente a smettere di “denigrare la comunità dell’intelligence”, visto che, una volta insediato, dovrà “fare affidamento su di essa”.

Un altro terreno di scontro saranno anche le audizioni al Senato per la ratifica della nomina a segretario di Stato di Rex Tillerson. Per questioni di affari, l’amministratore delegato di ExxonMobil ha coltivato rapporti molto stretti con i vertici dello stato russo, Putin compreso, e per questa ragione nelle ultime settimane è stato oggetto di critiche esplicite anche da parte di senatori Repubblicani.

La scelta di Tillerson, ma anche dell’ex generale Michael Flynn a consigliere per la sicurezza nazionale, sembra dunque profilare un riallineamento strategico dell’amministrazione Repubblicana entrante sulla Russia, nonostante le pressioni a proseguire la politica di confronto seguita da Obama.

A confermare che, almeno per il momento, su questo tema si vada verso l’aggravamento del conflitto interno alla classe dirigente americana ci sono le dichiarazioni di Trump dopo le sanzioni decise da Obama alla fine del 2016. Il presidente eletto aveva in sostanza elogiato Putin per la risposta pacata e la decisione di non espellere a sua volta diplomatici americani dalla Russia.

Domenica scorsa, poi, il prossimo portavoce di Trump alla Casa Bianca, Sean Spicer, in un’apparizione televisiva aveva criticato l’iniziativa di Obama nei confronti della Russia, ribadendo lo scetticismo del miliardario di New York circa le responsabilità di Mosca per gli attacchi informatici negli USA. Significativamente, Spicer aveva messo a confronto l’atteggiamento dell’amministrazione Democratica verso la Russia con quello che avrebbe tenuto con la Cina, accusando quest’ultimo paese di essere impegnato in una lunga serie di furti informatici ai danni del governo e delle compagnie americane. La moderazione di Trump nei confronti del Cremlino è d’altra parte dettata da una visione differente sulle priorità strategiche USA che vedono al primo posto non Mosca ma, appunto, Pechino.

A dare l’idea del clima che si respira negli Stati Uniti in merito ai rapporti con la Russia vale la pena citare infine l’ennesima accusa contro Mosca contenuta in una “rivelazione” del Washington Post, altra testata in prima linea nella crociata anti-Putin.

Venerdì scorso il giornale della capitale aveva pubblicato un articolo con un titolo allarmante che annunciava l’intrusione da parte di hacker al servizio del Cremlino nei sistemi informatici della rete elettrica americana attraverso un terminale di una compagnia operante in questo ambito nello stato del Vermont.

La notizia non aveva nessun fondamento, ma anche due dei politici più importanti dello stato del New England, il governatore Peter Shumlin e il senatore Patrick Leahy, entrambi Democratici, si erano lasciati andare ad accuse molto pesanti contro Putin.

Il Post ha dovuto alla fine pubblicare una rettifica, ammettendo che una versione precedente dell’articolo in questione attribuiva “erroneamente” la responsabilità dell’accaduto a hacker russi, dopo però che milioni di utenti avevano ormai letto il pezzo nella versione iniziale.

Quello che viene considerato come uno dei più autorevoli giornali americani non aveva nemmeno ritenuto necessario sentire sull’accaduto la compagnia elettrica pubblica del Vermont, la Burlington Electric. Poco dopo l’uscita dell’articolo sul sito web del Washington Post, quest’ultima aveva pubblicato un comunicato sul giornale locale Burlington Free Press per precisare che era stata semplicemente riscontrata la presenza di un “malware” su un singolo computer “non connesso alla rete elettrica” dello stato.

L’unica “prova” delle responsabilità di Mosca, almeno per il Post, era il solo fatto che il software dannoso sembrava provenire dalla Russia. Come hanno spiegato svariati esperti informatici sui media americani, ciò non dimostra evidentemente nulla, poiché un “malware” realizzato in Russia come altrove può essere acquistato on-line e utilizzato da chiunque in qualsiasi parte del mondo.

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