di Fabrizio Casari

La ricostruzione fantasy delle elezioni statunitensi fornita dai servizi segreti americani continua ad occupare la scena politica USA. La frustrazione dell’establishment democratico, Obama in testa, appare come la cifra per un inedito clima politico nel quale si svolge il passaggio dei poteri. Si assiste ad un passaggio carico di rabbia, di aggressività, di provocazioni e di scontro politico che sono lontane dal consueto procedimento di consegne tra presidenti uscenti ed entranti.

Sostenere che siano stati gli hacker russi a determinare la vittoria di Trump alle elezioni statunitensi è quello che oggi potrebbe essere definito una post-verità. Visto e considerato che il voto non è telematico, diventa difficile immaginare una presunta attività di condizionamento della Rete sul suo risultato.

E visto che far credere che le capacità di penetrazione dei sistemi informatici da parte dei russi sia alla pari di quella degli americani è dura - e oltretutto darebbe luogo al prefigurarsi di  pericolosi scenari - allora i vertici della CIA, con già gli scatoloni sul corridoio, accusano Mosca di aver contribuito alla creazione di un clima “sfavorevole” a Hillary Clinton.

Ma anche qui si scambia la causa con gli effetti. Non serviva l’hacker Ivan per sconfiggere la candidata dei democratici. Hillary, infatti, è stata la principale avversaria di se stessa e del suo partito, considerando il suo operato come Segretario di Stato prima e come candidata poi.

Incolpare chi denuncia l’illecito (Wikileaks) mentre si assolve chi lo compie è tecnica cialtrona e poco efficace. L’utilizzo della sua casella privata di posta durante il suo mandato governativo, nel migliore dei casi è stato frutto di imperizia politica, nel peggiore è stato un tentativo maldestro di occultare le sue comunicazioni, che nascondevano effettivamente verità imbarazzanti.

Non c’è stato nulla di trasparente, né nella sua avventura alla Casa Bianca, né nelle sue vicende private, tantomeno sugli ingentissimi finanziamenti provenienti da fondi sovrani di paesi del Golfo e da multinazionali con interessi fortissimi all’interno.

Che la Clinton non sarebbe stata votata da molta parte dei giovani democratici e che in diversi stati tra quelli più colpiti dalla crisi economica gli elettori democratici avessero scelto Bernie Sanders e non lei come candidato alla Casa Bianca è storia arcinota e solo i potenti quanto oscuri interessi che la circondavano hanno ritenuto che fosse comunque necessario puntare su di lei. Si è ritenuto che il candidato repubblicano mancasse della credibilità necessaria e che, alla fine, Hillary avrebbe comunque vinto, seppure con un distacco limitato. Così non è andata e la responsabilità non può certo essere addossata a Putin.

C’è poi un aspetto paradossale nelle accuse di Washington riguardo al condizionamento del voto. Come si può accusare Mosca di ingerenza nel voto USA quando quella di condizionare il voto nei paesi terzi è una delle maggiori attività che gli Stati Uniti svolgono ai quattro angoli del pianeta? Dall’Est Europa fino all’America Latina, le finte ONG e Fondazioni statunitensi operano illegittimamente nelle campagne elettorali.

Oriente o Occidente poco cambia: strateghi della comunicazione, fondi occulti, addestramento del personale, forniture tecnologiche e strumenti spionistici sono i principali rami di attività USA a favore dei loro alleati nelle competizioni.

E ciò avviene regolarmente e da decenni (ma nell’amministrazione Obama questo tipo di attività è stata potenziata ed estesa) ovunque si ritiene che gli interessi statunitensi, diretti o indiretti, possano essere salvaguardati a seconda del risultato elettorale.

Probabilmente, sentirsi minacciare sul terreno nel quale si pensa che si possa e debba avere l’esclusiva, ha scatenato una reazione isterica e scarsamente credibile, ma la gittata dell’operazione è soprattutto altra: delegittimare la vittoria di Trump.

Se infatti si dimostrasse che Putin abbia influito sul voto e che Trump ne fosse stato al corrente, l’impeachment per lui prima ancora di varcare il cancello della Casa Bianca sarebbe inevitabile. Nella sua ultima conferenza stampa, Obama ha chiesto alla CIA di chiudere l’indagine entro il 20 gennaio, ovvero la data dell’insediamento di Trump. L’agenzia dovrà anche valutare se e quali informazioni andranno coperte da segreto.

Paventare l’esistenza di notizie top-secret e quindi da non poter divulgare è l’essenza della campagna politica: se non potessero essere trasmesse a deputati e senatori non sarebbe possibile procedere legislativamente all’impeachment, ma ciò aumenterebbe esponenzialmente l’insinuazione di una verità inconfessabile, dunque gravissima.

Più concretamente l’operazione mira a condizionare la politica di Trump verso la Russia. La posizione di Trump, favorevole al dialogo con Mosca, mette infatti in discussione le scelte del Pentagono e dell’intero complesso militar-industriale statunitense, che prova a rilanciare il suo ruolo (e i suoi affari) in una politica di scontro aperto con Putin. Politica della quale l’allargamento ad Est della NATO costituisce premessa e obiettivo al tempo stesso.

Non è un caso che poche ore prima di lasciare la Casa Bianca, Obama abbia firmato il decreto di espulsione per 35 diplomatici russi e, poco dopo, abbia siglato l’ordine esecutivo per manovre militari pericolosamente vicine ai confini russi che vedono il coinvolgimento di 5 mila soldati NATO.

Putin questa volta non ha ritenuto di reagire basandosi sul principio di reciprocità che anima l’essenza delle relazioni diplomatiche. Ha preferito agire politicamente e, rifiutandosi di applicare le stesse misure, ha dimostrato intelligenza politica decisamente superiore, visto che il suo obiettivo è proprio quello di non turbare l’insediamento di Trump e metterne così in difficoltà la disponibilità al dialogo. L’interesse di Mosca, è naturale, è quello di riportare ad uno stato di normalità i rapporti con Washington e l’espulsione di diplomatici o la chiusura di uffici statunitensi non avrebbero prodotto un effetto positivo al riguardo.

L’agenda del miliardario cafone che tra pochi giorni si insedierà alla Casa Bianca è complessa e la composizione del suo Gabinetto appare già un esempio di come Trump intenda governare e per favorire quali interessi. Non c’è davvero di che stare allegri.

Ma che i democratici abbiano obiettivi ed interessi diversi da quelli di Trump è stato sufficientemente smentito in otto anni di amministrazione. La differenza sta solo nei gruppi di riferimento sui quali ci si appoggia. Provare di tutto, lecitamente o meno, per sovvertire l’esito del voto di Novembre è inutile ma racconta di quanti interessi vi fossero in gioco e di quale dignità politica i democratici dispongano.

Ma visto che governare gli riesce male, smettano di urlare ai complotti e convocare lo star-system a celebrare improbabili addii. Si preparino piuttosto a fare opposizione ed a ricostruire un partito che entri in sintonia con il suo elettorato. Se ne sono capaci.

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