di Michele Paris

Lo scontro interno alla classe politica americana sulla presunta interferenza della Russia nel processo elettorale che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca non accenna a placarsi. Martedì è infatti esploso un nuovo caso a dieci giorni esatti dall’insediamento del nuovo presidente Repubblicano. I media hanno pubblicato un documento, anch’esso senza alcun riscontro, che rivelerebbe contatti segreti tra esponenti del governo di Mosca e il team di Trump per manipolare l’esito delle elezioni presidenziali dello scorso novembre.

Com’è puntualmente accaduto nelle scorse settimane, anche in questo caso la notizia è servita ad amplificare la campagna in atto negli USA per screditare la nascente amministrazione Trump e soprattutto impedire il disgelo con il governo russo che il presidente eletto ha prospettato in più di un’occasione.

Tutti i media americani ne hanno fatto un caso pur essendo stati costretti ad ammettere chiaramente, e ancor più che nei precedenti dossier e rapporti sulle attività di hackeraggio attribuite alla Russia, la totale assenza di prove o conferme sui fatti descritti. Addirittura, tutte le principali testate, tranne il sito web Buzzfeed, si sono rifiutate di pubblicare il documento integrale di 35 pagine, redatto lo scorso anno da un ex agente dell’intelligence britannica.

Già l’origine del rapporto solleva enormi dubbi sulla genuinità delle accuse rivolte a Trump. L’ex agente segreto in questione era stato assoldato da una compagnia di Washington a cui si erano rivolti non meglio identificati esponenti del Partito Repubblicano contrari alla candidatura di Trump. A essi si sarebbero poi associati nel complotto contro quest’ultimo anche sostenitori della sua rivale nella corsa alla Casa Bianca, Hillary Clinton.

A dicembre, poi, il senatore Repubblicano John McCain, uno dei più accesi “falchi” anti-russi a Washington, è entrato in possesso di una copia del rapporto e l’ha consegnata all’intelligence americana e al direttore dell’FBI, James Comey, con ogni probabilità nella speranza di favorire un’indagine ufficiale o di fare esplodere uno scandalo.

Per quanto riguarda Comey, la stampa USA ha raccontato del suo rifiuto a procedere e della decisione di tenere segreto il documento su Trump. La mossa del numero uno dell’FBI rivela le divisioni trasversali presenti nella classe dirigente americana sulla vicenda e va collegata a quella che prese clamorosamente a pochi giorni dalle elezioni presidenziali, quando annunciò l’apertura di una nuova indagine sulle e-mail di Hillary Clinton transitate su un server privato durante il suo incarico al dipartimento di Stato.

Del documento ne ha parlato per prima la CNN martedì e dopo nemmeno un’ora dalla rivelazione del network il già ricordato Buzzfeed ha deciso di pubblicarlo integralmente. Il rapporto, in realtà, era già a conoscenza di media e politici americani da mesi. Alcune testate e almeno un leader Democratico, l’ormai ex senatore del Nevada Harry Reid, ne avevano fatto cenno lo scorso anno, con l’intento di convincere le autorità di polizia a indagare sulla condotta di Trump.

Il fatto però che il documento sia in sostanza rimasto lontano dal dibattito pubblico fino a questa settimana testimonia di per sé la sua inattendibilità. Allo stesso tempo, la sua pubblicazione dimostra ora il livello raggiunto dallo scontro sulla Russia, manifestazione delle profonde divergenze circa gli orientamenti strategici che gli Stati Uniti dovranno tenere una volta insediata la nuova amministrazione.

Il rapporto pubblicato martedì è stato usato dagli stessi servizi segreti americani per fare pressioni su Trump, al fine di convincerlo a cambiare rotta in merito ai rapporti con la Russia. Infatti, l’intelligence ne aveva inserito un compendio nel briefing sottoposto nei giorni corsi sia a Obama che a Trump sulle presunte interferenze russe nelle vicende politiche USA. Questa decisione, a fronte della mancanza di prove che ne corroborassero la veridicità, è stata definita “estremamente insolita” anche dagli stessi media che continuano ad attaccare Trump sulla Russia

Il contenuto di quest’ultimo rapporto fa riferimento a fatti più o meno gravi, anche se non dimostrati, che, nel clima politico americano odierno, sarebbero sufficienti a far crollare una carriera politica. Ciò dimostra gli sforzi disperati in corso dietro le quinte per convincere Trump ad allinearsi agli obiettivi della caccia alle streghe contro la Russia di Putin e, se ciò non fosse possibile, a impedire il suo ingresso alla Casa Bianca o a fare in modo che la sua permanenza alla guida del paese risulti breve.

Il documento dell’ex agente dei servizi segreti britannici accusa l’ex direttore della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, di essere la mente della cospirazione con il governo russo. Durante la campagna per le presidenziali, Manafort era stato criticato da più parti per avere svolto un incarico di consulenza a favore dell’ex presidente ucraino filo-russo, Viktor Yanukovych, deposto nel 2014 da colpo di stato di estrema destra orchestrato dal governo americano.

In base a informazioni fornite da fonti russe e da altre ancora meno identificabili, l’autore del rapporto fa riferimento ai viaggi di Trump in Russia per affari nel corso degli anni, durante i quali il Cremlino avrebbe cercato di influenzarlo, principalmente offrendogli la possibilità di concludere proficui affari, in vista di un suo futuro ingresso in politica. Secondo gli stessi resoconti dei giornali americani di questi giorni, Trump non avrebbe comunque interessi economici in Russia.

Nel corso del 2016 sarebbero poi avvenuti altri incontri tra membri del clan Trump ed esponenti del governo di Mosca per discutere di varie questioni relative alla campagna elettorale in atto, tra cui la violazione dei sistemi informatici del Comitato Nazionale Democratico e dell’account di posta del numero uno del team di Hillary Clinton, John Podesta.

Trump sarebbe stato dunque a conoscenza dell’hackeraggio attribuito alla Russia e, in cambio dell’aiuto, avrebbe accettato di non sollevare pubblicamente la questione dell’intervento militare di Mosca in Ucraina dopo il golpe del 2014. Il consigliere e legale di Trump, Michael Cohen, viene indicato come uno degli intermediari con uomini del Cremlino, incontrati presumibilmente nel corso di viaggi a Praga la scorsa estate. Cohen ha però negato le accuse, pubblicando immagini del suo passaporto che dimostrano come non si sia mai recato in Repubblica Ceca.

In maniera poco sorprendente, il rapporto racconta anche di materiale in mano ai servizi russi sulla condotta sessuale “perversa” di Trump, protagonista in particolare di filmati con prostitute che avrebbe ospitato in un hotel di Mosca nel corso di una visita nel 2013. I video sono definiti “kompromat”, o materiale compromettente, e sarebbero serviti a ricattare o screditare Trump in caso di necessità.

La notizia è significativamente apparsa alla vigilia di una conferenza stampa programmata da Trump per mercoledì, dopo che l’ultima era avvenuta addirittura lo scorso mese di luglio. Ancora, forse non a caso il novo presunto scandalo ha preceduto l’inizio delle audizioni al Senato per la ratifica della nomina a segretario di Stato di Rex Tillerson.

L’amministratore delegato di ExxonMobil vanta molti legami per motivi d’affari in Russia, tra cui con lo stesso Putin, ed è per questa ragione al centro di critiche da parte della nutrita fazione anti-russa all’interno del Partito Repubblicano e di quello Democratico.

Trump, da parte sua, non ha mostrato di voler cedere alle pressioni, anche se durante la conferenza stampa di mercoledì è sembrato ammettere per la prima volta che l’hackeraggio ai danni del Partito Democratico è stato condotto da agenti russi, prima di affermare che forse la responsabilità potrebbe essere attribuita anche a un altro governo.

In precedenza, martedì aveva pubblicato come suo solito alcuni “tweet” bollando come “falsa” la notizia e denunciando la “caccia alle streghe politica” in atto. Sempre via Twitter, mercoledì è tornato ad attaccare i suoi accusatori, definendoli “disonesti” e impegnati a screditare la sua vittoria elettorale. Trump si è poi scagliato contro l’intelligence USA, responsabile di avere fatto trapelare il rapporto, prima di chiedersi se “stiamo vivendo nella Germania nazista”.

Come già spiegato, la stampa “mainstream” americana ha dovuto sottolineare come non sia stato possibile trovare riscontri delle vicende descritte nel rapporto. Tuttavia, i media hanno deliberatamente usato la notizia per cavalcare l’escalation di accuse nei confronti di Trump e, in più di un caso, hanno fatto minacciosamente intravedere le possibili gravi conseguenze del suo comportamento.

Il New York Times, in prima linea nella propaganda anti-russa, ha ricordato come alcuni dei comportamenti descritti nel rapporto potrebbero comportare addirittura accuse di “tradimento”. La testata on-line Politico ha invece concluso uno dei pezzi dedicati alla vicenda con un riferimento ai pericoli che corre Trump.

Il neo-presidente rischia cioè di mettersi contro l’establishment militare e dell’intelligence su questioni cruciali relative alla sicurezza nazionale e agli obiettivi strategici di quella parte dell’apparato di potere americano, evidentemente maggioritaria, che continua a vedere nella Russia il principale nemico di Washington su scala globale.

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