di Fabrizio Casari

Alla fine, com’era prevedibile, Joaquìn Guzmàn Loera, al secolo “il Chapo” Guzman, fondatore e rais del Cartello di Sinaloa, uno dei più importanti gruppi di narcos messicani, è stato estradato dal Messico verso gli Stati Uniti. Arrestato e fuggito dalle carceri di massima sicurezza messicana, “el Chapo” ha probabilmente visto per l’ultima volta il cielo del suo paese, dato che dal carcere di sicurezza statunitense dove andrà potrà vedere solo quello statunitense.

Dal carcere in Texas il boss del narcotraffico non potrà fuggire, il destino che lo attende è quello di passare dietro le sbarre tutto il tempo che gli resta da vivere.

I tribunali statunitensi, dal Distretto Occidentale del Texas al distretto Nord dell’Illinois, da San Diego al Distretto Ovest di Brooklyn, fino al Distretto Sud della Florida, lo imputano di numerosi delitti di diversa natura: omicidio, traffico di stupefacenti, cospirazione, riciclaggio di denaro, sequestro di persona, tortura.

Le pene previste viaggiano complessivamente intorno ai 30 anni di carcere, ma ove le imputazioni specifiche dello stato del Texas fossero riconosciute senza attenuanti, la pena di morte potrebbe essere sentenziata, visto che l’iniezione letale continua ad essere pratica riconosciuta dai texani. A tal riguardo, però, le autorità statunitensi hanno ufficialmente dichiarato che non verrà condannato a morte, visto il mandato di estradizione.

Sembra quindi concludersi con un viaggio di sola andata in elicottero e con le manette ai polsi l’avventura di un uomo che, basandosi sulla sua ferocia e abilità organizzativa, ha costituito quello che per lungo tempo è stato il più potente dei cartelli messicani. Almeno fino a quando non intervenne la rottura con la famiglia Beltran-Leyva, che lo ritenne responsabile dell’uccisione di alcuni suoi componenti e decise prima di rompere con Guzmàn e poi di muovergli guerra.

Ad amplificare la piaga del narcotraffico in Messico ci pensò il Presidente Felipe Calderon (2006-2012), che per compiacere gli Stati Uniti decise di dichiarare guerra al cartello di Sinaloa, producendo però il risultato opposto: nell’indebolimento del cartello del “Chapo” molti altri videro lo spazio per la formazione dei loro cartelli, dividendosi le diverse aree d’influenza. Se prima c’era un solo cartello a comandare, divennero numerosi, con migliaia di uomini a disposizione (tra i quali moltissimi appartenenti alle forze dell’ordine e ai militari) e qualunque possibilità di fermarli diveniva remota.

Oltre al cartello di Sinaloa e al Beltran-Leyva, si formano Los Zeta, Jalisco Nueva Generacìòn, il Cartello del Golfo, la Familia Michoacana, il Cartello di Juarez, i Cavalieri Templari, il Cartello del Pacifico e il Cartello di Tijuana, solo per citare i maggiori. I narcos non sono più bande, divengono vere e proprie armate che producono miliardi di dollari. Sono organizzazioni criminali strutturate come eserciti: dotate di armamenti ad ogni livello, intrattengono relazioni con uomini politici, forze dell’ordine e business-man, costituiscono propri servizi d’intelligence e, grazie ad una sorta di welfare sussidiario, si reggono su una rete di sostegno territoriale che ne aumenta la penetrazione e l’efficacia.

Un potere vero, finanziario, economico e sociale, oltre che militare, che ha tolto il monopolio della forza allo Stato e che si configura in maniera evidente come un autentico “stato nello stato”.

Il venir meno del “Chapo” influirà relativamente sulla operatività del Cartello di Sinaloa, visto che i suoi vice hanno preso da anni le redini degli affari e che lo stesso Guzman era ormai fortemente indebolito dai rovesci degli ultimi tempi. Restano invece in Messico e liberi i suoi complici, tutti coloro i quali sostengono, da posizioni di rilievo sociale ed istituzionale, il narcotraffico messicano che ha decisamente superato di gran lunga il volume di potere e affari di quello colombiano. A stabilire chi occuperà lo spazio che lascerà "el Chapo" provvederà l'ennesima guerra tra cartelli.

L’estradizione del “Chapo” Guzmàn rappresenta però una resa senza condizioni del Messico. Ma, soprattutto, dimostra al mondo intero che una tra le prime 10 potenze economiche del mondo, il più potente e armato esercito latinoamericano (insieme a quello del Brasile) non è in grado di custodire un prigioniero. Non si tratta dell’impossibilità di gestire un detenuto di particolare pericolosità, si ammette di non poter controllare il livello di corruzione che potrebbe permetterne la fuga.

Non è un caso, però, che l’estradizione del “Chapo” Guzmàn avvenga in contemporanea con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Nelle intenzioni del Presidente Pena Nieto, che già lo ricevette con tutti gli onori a Città del Messico durante la campagna elettorale, riuscendo a far infuriare Hillary e a far indignare i messicani, la consegna del capo narcos è un cadeau di benvenuto.

Appare come un tentativo ridicolo di stemperare il clima polemico del neopresidente USA, una dimostrazione di amicizia verso chi da mesi offende i messicani e che chiede alle aziende statunitensi di ritirare i loro investimenti industriali dal paese Azteca.

Il Messico è una frontiera che rischia di divenire un paradigma politico dopo esser stato un dramma sociale. Proprio per questo da parte del governo azteca, di fronte a tanta arroganza ci si sarebbe aspettato un sussulto di dignità, una riaffermazione di sovranità, una rivendicazione delle responsabilità statunitensi.

Tanto in ordine al narcotraffico (gli USA sono i principali consumatori del mondo di stupefacenti) quanto all’emigrazione clandestina, favorita dall’alleanza tra coyotes messicani e statunitensi che lucrano sul traffico di esseri umani e del loro sfruttamento.

La scelta di Pena Nieto appare invece come una dichiarazione di resa di fronte allo strapotere statunitense, un voltare le spalle alla sovranità messicana, perché riconosce agli Stati Uniti e non al Messico la possibilità e la capacità di custodire, giudicare e condannare un criminale messicano.

Si chiude così un capitolo tremendo con un risultato a metà. “El Chapo” Guzmàn sarà giudicato infatti solo per i crimini ai danni dei cittadini statunitensi. Per quelli messicani è previsto un muro.

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