di Mario Lombardo

Il bilancio dell’attacco terroristico nella metropolitana di San Pietroburgo è stato aggiornato nella giornata di martedì a 14 morti, mentre le autorità di sicurezza russe hanno fatto sapere di avere identificato l’autore della strage in un cittadino russo di origine kirghisa.

Nonostante non siano giunte finora rivendicazioni ufficiali, come per gli episodi che hanno sconvolto varie città europee in questi ultimi anni l’origine dell’attentato è molto probabilmente da collegare al fondamentalismo islamista e alla guerra vera o presunta condotta contro questa minaccia dalle potenze internazionali in Medio Oriente e in Asia centrale.

Praticamente tutti i giornali occidentali e non solo in questi giorni hanno ricordato il doppio fronte sul quale Mosca combatte il jihadismo da un paio di decenni, quello caucasico e, più recentemente, quello siriano, a cui vanno aggiunti i primi segnali di un possibile allargamento dell’impegno alla Libia.

Nel quadro della campagna anti-russa che sta infuriando in Occidente, i media ufficiali hanno nascosto a malapena una certa soddisfazione nel descrivere gli effetti collaterali dello sforzo russo contro il terrorismo islamista. In molti hanno anche insistito sui metodi brutali avallati da Putin come motivo della vendetta jihadista, tralasciando di ricordare ad esempio le recenti incursioni aeree americane contro l’ISIS a Mosul, responsabili della morte di centinaia di civili innocenti.

Soprattutto, la Russia pagherebbe però la decisione del suo governo di schierarsi dalla parte “sbagliata” nella guerra in Siria, a sostegno cioè del regime di Assad e a fianco di Iran e Hezbollah. Com’è quasi universalmente noto, l’obiettivo dell’impegno bellico russo in Siria, da ritenersi legittimo dal punto di vista del diritto internazionale, al contrario di quello di altri paesi come Stati Uniti e Turchia, è la galassia jihadista dell’opposizione sunnita, armata e finanziata precisamente da Washington e dai suoi alleati in Medio Oriente.

Se le città russe subiscono uguale o peggiore sorte di quelle occidentali a causa della fuoriuscita del fenomeno fondamentalista, gli attentati di San Pietroburgo non possono dunque finire nello stesso calderone di quelli di Parigi, Bruxelles, Berlino o Londra.

Infatti, gli attentati in Occidente, così come in Turchia, sono la diretta conseguenza di avventure belliche intrecciate in maniera inestricabile con politiche e scelte deliberate che, direttamente o indirettamente, utilizzano proprio il presunto nemico del fondamentalismo islamista come arma al servizio degli interessi dei governi coinvolti.

Per quanto riguarda la Russia, al contrario, pur essendo fuori discussione la brutalità dei metodi e le motivazioni legate ai propri interessi strategici, è evidente che le azioni intraprese nel Caucaso e in Medio Oriente sono di natura fondamentalmente difensiva.

Senza giungere a stabilire un legame diretto nell’organizzazione degli attentati tra la miriade di gruppi integralisti attivi in Medio Oriente e altrove e gli ambienti dei servizi segreti delle monarchie sunnite del Golfo Persico, della Turchia o degli stessi Stati Uniti, è altrettanto chiaro che stragi come quella di lunedì a San Pietroburgo intendono mandare un messaggio a Mosca il cui mittente potrebbe essere ugualmente lo Stato Islamico, al-Qaeda o i governi dei paesi appena elencati.

In altre parole, le iniziative russe in Medio Oriente disturbano allo stesso modo Washington, Riyadh o il cosiddetto “califfato”. L’attentato nella seconda città della Russia è avvenuto d’altra parte in concomitanza con la chiusura dell’ennesimo round di negoziati sulla Siria, alla guida dei quali Mosca ha soppiantato da tempo gli Stati Uniti.

Inoltre, la presenza di Putin nella giornata di lunedì a San Pietroburgo, dove ha incontrato il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, conferma ancora più chiaramente l’ipotesi del messaggio diretto ai vertici del governo russo. Tanto più che nei giorni precedenti, lo stesso presidente russo aveva incontrato a Mosca il suo omologo iraniano, Hassan Rouhani, in un vertice che era servito a sottolineare i sensibili progressi nel consolidamento di una partnership strategica con la Repubblica Islamica.

Proprio l’asse Mosca-Teheran risulta essere un motivo di preoccupazione per Washington, Riyadh e Tel Aviv, il cui tentativo di isolare l’Iran è da collegare in buona parte alla partecipazione di questo paese nel conflitto siriano a fianco della Russia contro l’opposizione islamista armata.

A questo proposito, è difficile non ricordare la minaccia nemmeno troppo velata rivolta alla Russia lo scorso mese di settembre dall’allora portavoce del dipartimento di Stato americano, John Kirby. Se Mosca non si fosse adoperata per mettere fine alla guerra in Siria, ovviamente secondo i termini dettati da Washington, quest’ultimo aveva avvertito che gli “estremisti” avrebbero allargato il proprio raggio d’azione, prendendo di mira gli “interessi russi” e, “forse, anche le città russe”.

A riprova dell’attitudine occidentale nei confronti della Russia e della lotta al terrorismo, è singolare che i governi europei e quello americano non stiano parlando, dopo l’attentato di San Pietroburgo, della necessità di un maggiore “coordinamento” e “scambio di informazioni” con Mosca per prevenire e combattere una minaccia che dovrebbe essere comune. Appelli alla cooperazione tra i vari governi dei paesi colpiti dal terrorismo sono invece puntualmente lanciati dai leader occidentali quando i fatti di sangue avvengono entro i propri confini.

La stampa filo-russa ha ricordato in questi giorni come il governo di Mosca avesse nel recente passato sollecitato soprattutto gli Stati Uniti a condividere le informazioni di intelligence sul movimento jihadista, ma, come ha ad esempio spiegato al network RT l’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, “il Pentagono aveva respinto questa proposta”.

Che la lotta al terrorismo appaia diversa agli occhi dei leader occidentali se a essere coinvolto è un rivale strategico, come appunto la Russia, è evidente infine dalle reazioni anche simboliche alla strage di San Pietroburgo.

Il cordoglio espresso ufficialmente dai governi in Occidente non è andato infatti molto al di là di dichiarazioni pro-forma rivolte ai familiari delle vittime, alla popolazione o ai leader russi. Manifestazioni di solidarietà decisamente più appariscenti sono state in pratica inesistenti, a differenza di quanto accaduto dopo gli attentati dei mesi scorsi nelle città dell’Europa occidentale.

Sui social media e sulla stampa “alternativa” si è discusso molto ad esempio della mancata illuminazione con i colori della bandiera russa di edifici simbolo come la Torre Eiffel o la Porta di Brandeburgo. Solo in seguito alle pressioni popolari, il sindaco di Parigi ha deciso che martedì notte le luci che illuminano la Torre Eiffel rimarranno spente come segno di solidarietà con San Pietroburgo.

Questa partecipazione al dolore di popolazioni di altri paesi colpiti dal terrorismo era diventata una consuetudine in Europa dopo gli attacchi più recenti, ma, evidentemente, la sensibilità dei governi occidentali risulta meno sollecitata se a essere colpiti sono obiettivi in territorio russo.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy