di Michele Paris

A quattordici anni dagli eventi che portarono all’invasione dell’Iraq e alla virtuale distruzione del paese mediorientale in base ad accuse totalmente fabbricate, gli Stati Uniti sembrano essere sul punto di scatenare una nuova aggressione contro un altro paese arabo grazie alla messa in scena seguita al recente “attacco” con armi chimiche in Siria, attribuito senza nessuna prova al regime di Bashar al-Assad.

I fatti che si sono susseguiti dopo l’episodio di martedì nella provincia nord-occidentale di Idlib hanno innescato due dinamiche ben precise e attentamente pianificate da parte dei fautori della guerra contro la Siria. Da un lato, l’intera macchina governativa e militare degli Stati Uniti ha iniziato una campagna retorica contro Damasco di un’intensità che non si riscontrava dall’agosto del 2013.

Dall’altro, questo sforzo è stato sostenuto da una vigorosa propaganda dei media “mainstream” per incolpare senza la minima esitazione il regime di Assad e soffocare qualsiasi voce critica o intenzionata a mettere in discussione la ricostruzione ufficiale di quanto accaduto in Siria.

La nuova offensiva dell’apparato militare e della “sicurezza nazionale” americano per giungere a un intervento su larga scala in Siria per rovesciare il regime di Damasco sembra avere ormai travolto anche la nuova amministrazione Trump, delle cui velleità di imbastire un dialogo con la Russia per combattere la minaccia terroristica in Medio Oriente non vi è ormai quasi più traccia.

Praticamente nulla del tradizionale corredo che precede le operazioni maggiori dell’imperialismo americano è stato trascurato in questi giorni: dalle accuse infondate rivolte ai propri nemici per un fatto di sangue dai contorni oscuri all’ostentazione rivoltante di scrupoli umanitari, dalla promessa di assecondare l’imperativo morale che guiderebbe la politica estera degli Stati Uniti all’occultamento delle responsabilità americane in crimini di gran lunga peggiori.

Il presidente, i membri del suo gabinetto e i vertici militari hanno così messo in chiaro come questa settimana sia stato fatto un passo forse decisivo nell’apertura di un nuovo rovinoso fronte di guerra in Medio Oriente, destinato ad abbattere il regime di Assad e a colpire nel contempo gli interessi di Russia e Iran.

Anche da un punto di vista formale, l’accelerazione dell’amministrazione Trump sulla Siria ha ricordato la campagna del 2003, soprattutto con l’intervento dell’ambasciatrice americana all’ONU, Nikki Haley, nella giornata di mercoledì durante una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza. Apparentemente senza imbarazzo, l’ex governatrice della South Carolina ha mostrato immagini di bambini vittime del presunto attacco con armi chimiche di martedì, avvertendo che il suo paese potrebbe adottare iniziative unilaterali se le Nazioni Unite non saranno in grado di fermare il massacro in Siria.

La presa di posizione più clamorosa è stata però quella del presidente, apparso in una conferenza stampa a Washington con il sovrano di Giordania, Abdullah II, per annunciare il suo cambiamento di “attitudine nei confronti della Siria e di Assad”. Per Trump, il regime di Damasco avrebbe commesso un atto “atroce” e “oltrepassato parecchie linee rosse”, in riferimento all’avvertimento di Obama allo stesso Assad nell’estate del 2013 dopo un altro attacco con armi chimiche attribuito al regime e che portò gli USA sull’orlo della guerra in Siria.

Le parole di Trump sono ancora più significative se si pensa che solo pochi giorni prima alcuni esponenti del suo gabinetto, tra cui la stessa ambasciatrice Haley, avevano rilasciato dichiarazioni pubbliche che sembravano riconoscere l’inevitabilità della permanenza al potere in Siria del presidente Assad.

Il repentino cambio di rotta, sollecitato dal presunto attacco con armi chimiche nella provincia di Idlib, dimostra come gli ambienti di potere negli Stati Uniti contrari alle posizioni di Trump sulla Siria e la Russia abbiano deciso di accelerare la propria offensiva, così da rimettere in linea la nuova amministrazione con gli obiettivi della galassia “neo-con”, votata all’interventismo a oltranza sulla scena internazionale nell’illusione di riuscire a invertire il declino della potenza americana.

A queste dinamiche può essere forse collegato anche un altro evento importante di questi giorni, cioè la rimozione del consigliere di Trump, Stephen Bannon, dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale (NSC). L’ideologo dell’ultra-nazionalismo di Trump sarebbe stato silurato dal direttore dell’NSC, generale Herbert Raymond McMaster, ovvero il principale rappresentante dell’apparato militare nel cuore della Casa Bianca. McMaster era stato scelto da Trump pochi giorni dopo l’insediamento per sostituire il “filo-russo” Michael Flynn, costretto alle dimissioni a causa dei suoi contatti “illeciti” con l’ambasciatore di Mosca a Washington.

McMaster avrebbe voluto il passo indietro di Bannon proprio per escludere dalla formulazione delle politiche sulla “sicurezza nazionale”, ovvero le decisioni in merito a guerre e iniziative militari di vario genere, un uomo molto vicino al presidente e per il quale aveva modellato i piani di impronta nazionalista, nonché moderatamente tendenti all’isolazionismo e alla distensione con la Russia.

Il riorientamento dell’amministrazione Trump verso le tradizionali posizioni “neo-con” che hanno dominato la politica estera USA dei suoi due predecessori è apparso evidente anche dalle parole seguite ai fatti in Siria di martedì del segretario di Stato, Rex Tillerson, considerato, almeno fino a qualche settimana fa, tra i principali sostenitori del disgelo con Mosca all’interno del gabinetto. Tillerson si è in sostanza anch’egli allineato alla nuova attitudine della Casa Bianca, assicurando di non avere dubbi sulle responsabilità di Assad e invitando la Russia a “riconsiderare attentamente il proprio sostegno al regime” siriano.

Per quanto riguarda i dettagli dei fatti di martedì in Siria, le incongruenze della versione ufficiale, subito sposata dagli Stati Uniti e dai loro alleati ma smentita in maniera decisa da Mosca e Damasco, sono state ampiamente messe in risalto da vari giornalisti e siti web indipendenti. Per i media ufficiali, invece, tutte le prove necessarie per la colpevolezza di Damasco consistono nelle informazioni provenienti da fonti dell’opposizione siriana e dalle note ufficiali dell’ufficio stampa della Casa Bianca.

Anche solo la parvenza di una posizione neutrale e indipendente avrebbe dovuto richiedere almeno un’indagine approfondita di quanto accaduto in una realtà complessa e difficilmente accessibile. Inoltre, i precedenti attacchi ben documentati con armi chimiche condotti da gruppi “ribelli” in Siria, assieme alla certificazione nel 2016 da parte dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche della rimozione dalla Siria di tutto l’arsenale proibito in possesso del regime, avrebbe dovuto suggerire cautela nel giungere alle conclusioni.

Ancora, non un solo giornale “mainstream” ha fatto notare ad esempio come l’indignazione del governo americano e dei suoi alleati occidentali per le vittime siriane di martedì si sia manifestata proprio mentre Trump accoglieva a Washington il presidente-macellaio egiziano al-Sisi, responsabile della morte di migliaia di oppositori interni a partire dal colpo di stato del luglio 2013 contro il presidente democraticamente eletto, Mohamed Mursi.

Non solo, sempre questa settimana la premier britannica, Theresa May, il cui rappresentante all’ONU ha contribuito alla stesura di una risoluzione di condanna del governo siriano, è stata protagonista di una visita cordiale in Arabia Saudita, il cui regime ultra-reazionario sta conducendo una guerra sanguinosa in Yemen, con il pieno appoggio occidentale, che ha fatto migliaia di vittime civili. Le notizie provenienti dal Medio Oriente fino alla scorsa settimana erano infine dominate dai bombardamenti americani a Mosul, in Iraq, nel quadro della battaglia contro lo Stato Islamico (ISIS) e che anche in questo caso avevano provocato centinaia di morti tra la popolazione civile.

Per questi fatti non è stata convocata nessuna riunione urgente del Consiglio di Sicurezza, né i diplomatici occidentali hanno mostrato indignati al mondo le immagini di donne e bambini massacrati dalle bombe degli Stati Uniti e dei loro alleati, nonostante le prove delle responsabilità siano in questo caso decisamente più consistenti di quelle contro la Siria.

Forse ancor più delle circostanze sul campo, praticamente impossibili da verificare in questa fase, è comunque un’analisi delle ragioni che avrebbero potuto motivare un eventuale attacco con armi chimiche da parte del regime di Assad a risultare utile per fare chiarezza sui fatti di martedì nella provincia di Idlib.

Per quanto alcuni analisti citati dai media ufficiali abbiano provato a dare giustificazioni contorte delle motivazioni di Damasco, in nessun modo il regime avrebbe potuto trarre vantaggio da un’incursione in un’area controllata dai “ribelli” utilizzando il sarin o altre sostanze chimiche, oltretutto prendendo di mira la popolazione civile.

Un governo, come quello di Assad, che ha resistito per oltre sei anni a un’offensiva sostenuta dalle principali potenze regionali e internazionali, a costo della devastazione del paese e di centinaia di migliaia morti, solo in un gesto del tutto irrazionale, per non dire suicida, avrebbe potuto pensare che il ricorso ad armi chimiche contro i civili non si sarebbe risolto in nuove accuse, pressioni e minacce di guerra.

Inoltre, Assad avrebbe ordinato un’operazione di questo genere proprio quando negli Stati Uniti si è insediata una nuova amministrazione apparentemente meno ostile della precedente e pochi giorni dopo che alcuni esponenti di quest’ultima avevano mostrato aperture circa la sua permanenza al potere in Siria.

Al contrario, sono proprio le formazioni dell’opposizione armata a raccogliere i benefici di un attacco con armi chimiche attribuito al regime, tanto più in uno scenario segnato da mesi di pesanti rovesci sul fronte militare.

Come dimostrano anche in questo caso i precedenti sia in Siria sia in Iraq, il tempismo di quanto accaduto non è casuale. Oltre che all’indomani delle già citate dichiarazioni del governo USA sul riconoscimento della posizione di Assad, l’episodio di martedì è arrivato in contemporanea con l’apertura a Bruxelles di una conferenza internazionale sulla Siria, nel quale si è discusso di una possibile “transizione” politica e di una ricostruzione che, tuttavia, dopo i fatti di questi giorni sembra appartenere a un futuro sempre più lontano.

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