di Michele Paris

Il bombardamento illegale ordinato settimana scorsa dal presidente americano Trump contro una base militare siriana non sembra avere distolto l’attenzione degli Stati Uniti dalla Corea del Nord né reso meno caldo il fronte del nord-est asiatico. Anzi, l’incursione in Siria, seguita alle accuse al regime siriano di avere utilizzato armi chimiche nella provincia di Idlib, potrebbe essere stato anche un avvertimento diretto al regime di Kim Jong-un e al suo alleato cinese, come ha confermato la notizia dell’invio di una portaerei USA nelle acque della penisola di Corea.

Il dirottamento della “USS Carl Vinson” dall’Australia, dove era diretta dopo avere lasciato Singapore, è infatti un nuovo segnale provocatorio di Washington, all’indomani dell’incontro in Florida tra Trump e il presidente cinese, Xi Jinping. Il primo faccia a faccia tra i due leader si era tenuto verosimilmente in un clima molto teso, al di là delle ridicole rassicurazioni di Trump, proprio perché in concomitanza con il raid americano in Siria e il surriscaldarsi dello scenario coreano.

L’aggravamento della crisi, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e una serie di test missilistici condotti da Pyongyang, sta sollevando l’interrogativo sulle reali intenzioni del governo americano. Se, cioè, l’escalation promossa dagli Stati Uniti nei confronti del regime di Kim possa effettivamente tradursi nel breve periodo in una nuova aggressione militare o se, invece, debba considerarsi un avvertimento, per quanto rischioso, indirizzato principalmente a Pechino.

A far propendere per quest’ultima ipotesi sarebbero alcuni segnali giunti da Washington dopo il vertice tra Trump e Xi. A parte le dichiarazioni del presidente americano, che ha parlato di “straordinari progressi” nei rapporti con la Cina, significativa è stata la notizia riportata dal Financial Times sulla disponibilità di Pechino a cancellare il bando alle importazioni di carne di manzo dagli Stati Uniti e ad alzare la percentuale delle quote che gli investitori stranieri possono detenere nelle compagnie finanziarie cinesi.

La retorica anti-cinese di Trump negli ultimi mesi era sembrata infatti puntare all’ottenimento di concessioni significative da parte di Pechino proprio sul fronte commerciale ed economico. Perciò, il rischio di veder scoppiare un conflitto dalle conseguenze incalcolabili in Corea, soprattutto dopo l’esempio della Siria, avrebbe spinto il governo cinese ad assecondare almeno alcune delle richieste americane.

Un inviato del governo di Pechino in Corea del Sud nella giornata di lunedì ha poi concordato con Seoul una strategia congiunta che prevede l’imposizione di nuove sanzioni contro Pyongyang se il regime dovesse portare a termine altri test nucleari o di missili balistici.

In questa dinamica potrebbero inserirsi quindi anche le recenti dichiarazioni del segretario di Stato americano, Rex Tillerson, il quale, pur definendo il bombardamento in Siria some una sorta di messaggio alla Corea del Nord, ha rivelato come il presidente Xi abbia promesso al governo di Washington una maggiore collaborazione nell’affrontare la questione del programma nucleare nordcoreano. La reazione di Pechino all’incursione militare americana in Siria di settimana scorsa è stata inoltre misurata, tanto da far pensare effettivamente a una qualche trattativa in atto per allentare le tensioni nella penisola di Corea.

A sostegno della tesi di coloro che considerano improbabile un’opzione militare in questo frangente vi è una dichiarazione citata dalla Reuters nel fine settimana sulla posizione dei governi di Giappone e Corea del Sud circa la possibilità di un attacco militare americano contro la Corea del Nord. Una fonte anonima del ministero della Difesa giapponese ha affermato che “probabilmente è irrealistico per gli Stati Uniti attaccare la Corea del Nord” e, soprattutto, che se Trump dovesse muoversi in questa direzione sia Tokyo sia Seoul si adopererebbero per impedire un’escalation militare.

Ciononostante, i preparativi per un’operazione militare contro la Corea del Nord da parte americana sembrano decisamente avanzati. A fornire questa impressione sono anche i media ufficiali che continuano a dare spazio ad analisi sull’eventuale efficacia di un raid in questo paese, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze in termini di vite umane e del possibile coinvolgimento della Cina.

Come dimostra proprio l’attacco in Siria, d’altra parte, l’amministrazione Trump non sembra mostrare troppi scrupoli nel ricorrere alla forza per imporre i propri interessi e per cercare di districarsi dalla profonda crisi sul fronte domestico nella quale è invischiata a nemmeno tre mesi dall’insediamento.

L’invio della portaerei “Carl Vinson” in Asia nord-orientale, assieme ad altre navi da guerra con un enorme potenziale distruttivo, è giunto infatti al termine della revisione della strategia americana relativa alla Corea del Nord ordinata dallo stesso presidente. Secondo NBC News, Trump e i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale avrebbero analizzato il rapporto su Pyongyang proprio alla vigilia dell’incontro con Xi in Florida.

Per la stampa americana sarebbero tre le opzioni a disposizione della Casa Bianca, tutte palesemente criminali o comunque destinate precipitare la penisola di Corea in una guerra rovinosa. Trump potrebbe cioè favorire il ritorno di armi nucleari sul territorio della Corea del Sud, dopo che erano state rimosse nel 1991, oppure ordinare l’assassinio dei leader nordcoreani, a cominciare dallo stesso Kim, o ancora dare il via libera a operazioni clandestine per colpire le installazioni militari e industriali del paese.

Quel che è certo è che qualsiasi iniziativa americana sarà presentata come se fosse di natura difensiva, necessaria per far fronte a un regime irresponsabile e imprevedibile, in grado di colpire gli alleati in Giappone e in Corea del Sud, se non lo stesso territorio americano.

I timori per un possibile blitz militare USA contro Pyongyang sono legati anche ad alcune celebrazioni che nel mese di aprile si terranno in Corea del Nord, tra cui il giorno 15 per i 105 anni dalla nascita di Kim Il-sung, nonno dell’attuale leader. In queste occasioni, il regime è solito eseguire test missilistici o prendere altre iniziative provocatorie che potrebbero essere sfruttate dagli Stati Uniti per condurre un attacco militare.

Se le reali intenzioni dell’amministrazione Trump potranno essere decifrate solo in un futuro più o meno immediato, è comunque evidente che l’atteggiamento di Washington intende provocare precisamente una reazione sconsiderata da parte nordcoreana. La storia recente dei rapporti tra i due paesi nemici assicura infatti che alle minacce americane fanno puntualmente seguito risposte dai toni bellicosi.

A conferma di ciò, la reazione ufficiale di Pyongyang all’attacco USA in Siria ha fatto riferimento alla necessità di disporre di un arsenale nucleare efficace per fronteggiare la minaccia americana. Il calcolo illusorio del regime di Kim è quello di convincere gli Stati Uniti a desistere dall’attaccare un paese che dispone di armi atomiche, a differenza di quanto accaduto con Saddam Hussein, Gheddafi e, ora, Assad in Siria.

La corsa agli armamenti nella penisola di Corea non fa però che offrire l’occasione agli USA di rafforzare la loro presenza nella regione, dove l’obiettivo strategico principale è il contenimento di Pechino, e moltiplica il rischio di incidenti che potrebbero facilmente innescare un pericolosissimo conflitto su vasta scala.

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