di Mario Lombardo

Le elezioni presidenziali di martedì in Corea del Sud hanno segnato un importante passaggio di consegne tra i due principali partiti che animano la scena politica del paese asiatico, con possibili ripercussioni sugli equilibri strategici di una penisola tuttora esposta al rischio di una guerra rovinosa tra Washington e il regime stalinista di Pyongyang.

Il favorito dei sondaggi, il leader del Partito Democratico di centro-sinistra, Moon Jae-in, ha riportato i “liberal” sudcoreani al potere dopo i due mandati dei conservatori Lee Myung-bak e Park Geun-hye. Proprio l’impeachment, la rimozione dal proprio incarico e il successivo arresto di quest’ultima avevano portato a elezioni anticipate, precipitando in una profonda crisi il Partito della Libertà (ex Saenuri) di centro-destra.

Moon ha superato il 40% dei consensi e, grazie al sistema elettorale sudcoreano a turno unico, si è subito assicurato la vittoria. Il margine di vantaggio sul suo più immediato rivale è stato molto ampio, anche se il candidato del Partito della Libertà, Hong Joon-pyo, ha registrato un’impennata rispetto alle rilevazioni precedenti il voto.

Hong ha ottenuto il 25%, confermando un recupero ipotizzato da molti nei giorni scorsi e dovuto probabilmente ai toni aggressivi utilizzati per dipingere Moon come una sorta di alleato della Corea del Nord. Il leader del partito della deposta presidente Park ha preceduto a sorpresa un altro candidato considerato di centro sinistra, l’imprenditore Ahn Cheol-soo del Partito Popolare, fermatosi a poco meno del 22%.

Nelle presidenziali del 2012, Ahn aveva ritirato la propria candidatura in extremis per appoggiare Moon, alla fine sconfitto di misura dalla Park. In questa occasione ha invece cercato di marcare la propria differenza dal numero uno del Partito Democratico, mantenendosi su posizioni più vicine a quelle dei conservatori sul fronte dell’economia e, soprattutto, dei rapporti con la Corea del Nord.

Più indietro sono finiti poi i candidati dei partiti minori, tra cui Yoo Seong-min del partito di centro-destra Bareun (7%), fondato solo nel mese di dicembre da una fazione di parlamentari del Partito della Libertà, allora Saenuri, contrario all’impeachment della presidente Park. Poco meno del 6% dei consensi sono andati infine a Sim Sang-jung del Partito della Giustizia di sinistra.

Dopo avere governato per un decennio, nel 2008 il centro-sinistra sudcoreano era stato punito dagli elettori soprattutto per le politiche di deregolamentazione dell’economia e del mercato del lavoro implementate dai presidenti Kim Dae-jung e Roh Moo-hyun. Solo il peggioramento del clima economico nel paese, l’ingigantirsi delle disuguaglianze sociali e i ripetuti episodi di corruzione, che hanno coinvolto in particolare esponenti del partito di maggioranza e i vertici dei colossi del business (“chaebol”), come Samsung e Hyundai, hanno alla fine favorito la riabilitazione del Partito Democratico e la riconquista della presidenza da parte di quest’ultimo.

Il neo-presidente Moon è riuscito poi a dare l’impressione alla maggioranza relativa degli elettori sudcoreani di poter cambiare rotta rispetto all’amministrazione uscente in ambito economico, nella lotta alla corruzione e, in misura minore, nell’approccio alla “minaccia” rappresentata dalla Corea del Nord.

La sorte del centro-destra sudcoreano era stata d’altra parte segnata dalla vicenda della presidente Park. La Corte Costituzionale di Seoul aveva ratificato la sua destituzione il 10 marzo scorso dopo il voto favorevole all’impeachment del parlamento a maggioranza conservatrice. Park era accusata, ed è ora formalmente incriminata, per avere favorito una stretta collaboratrice e la sua famiglia nell’ottenere lucrosi contratti d’affari con alcune grandi aziende sudcoreane.

L’ascesa al potere di Moon sta suscitando interrogativi soprattutto riguardo le decisioni di politica estera che sarà chiamato a prendere, con la questione nordcoreana e i rapporti con gli Stati Uniti al primo posto. Moon viene tuttora identificato con la cosiddetta “Sunshine Policy”, cioè la politica che predilige apertura e dialogo nei confronti di Pyongyang rispetto a sanzioni e minacce militari.

Promotore di queste iniziative era stato l’ex presidente Roh Moo-hyun, di cui Moon fu capo di gabinetto e consigliere, protagonista nell’ottobre del 2007 dello storico incontro nella capitale nordcoreana con Kim Jong-il. Il vertice aveva seguito il primo faccia a faccia in assoluto tra i leader dei due paesi divisi dal 38esimo parallelo, avvenuto nel giugno del 2000 tra l’allora dittatore nordcoreano e il presidente sudcoreano Kim Dae-jung.

Il giorno prima delle presidenziali di martedì, tramite il proprio organo ufficiale di stampa, il regime nordcoreano aveva invitato gli elettori della Corea del Sud a scaricare i conservatori, accusati di essere i responsabili dell’involuzione dei rapporti bilaterali nell’ultimo decennio.

Più che un intervento per cercare di condizionare l’esito del voto, vista la tardività dell’appello e la scarsissima capacità di esercitare la propria influenza sulle dinamiche politiche sudcoreane da parte del regime, la mossa di Pyongyang è apparsa come un messaggio di disponibilità al dialogo verso il presidente entrante.

Moon è considerato decisamente meglio disposto ad aprire un percorso distensivo con la Corea del Nord rispetto ai suoi due predecessori, ma ha fatto intravedere nelle settimane di campagna elettorale un evidente irrigidimento delle sue posizioni in merito al nodo centrale della politica estera di Seoul.

Un editoriale pubblicato martedì dalla testata in lingua inglese Korea Times ha spiegato come Moon sia in realtà molto più “pragmatico” del suo ex superiore, il defunto Roh Moo-hyun, mentre lo stesso quadro internazionale appaia oggi cambiato rispetto ai primi anni duemila.

In altre parole, il timore, manifestato da molti soprattutto negli Stati Uniti, che Moon possa assumere un atteggiamento meno accomodante verso Washington, proprio mentre l’amministrazione Trump sta alimentando lo scontro con Pyongyang, potrebbe essere cioè infondato o, quanto meno, eccessivo.

Se la predisposizione di una buona parte della popolazione della Corea del Sud per l’alleato americano continua a non essere esattamente positiva, come confermano le proteste contro la recente installazione del sistema antimissilistico THAAD, è l’inclinazione della classe politica di questo paese a essere in parte cambiata rispetto a più di un decennio fa. L’aggravamento delle relazioni internazionali sulla spinta della crisi economica globale e il conseguente riposizionamento americano in Asia, in funzione di contenimento della Cina, hanno costretto cioè le élites di paesi come la Sudcorea a ridurre eventuali differenze di vedute con gli USA.

Questo aggiustamento appare ancora più necessario alla luce del crescente interventismo americano nelle vicende interne dei paesi alleati quando i leader di turno mostrano esitazioni nell’abbracciare la “svolta” asiatica a stelle e strisce o un’eccessiva apertura nei confronti della Cina.

Washington, infatti, ha senza dubbio svolto un ruolo importante nella rimozione, ad esempio, del primo ministro Laburista australiano, Kevin Rudd, nel 2010, così come di quello giapponese, Yukio Hatoyama, nello stesso anno. Per alcuni, inoltre, la stessa presidente sudcoreana Park non avrebbe beneficiato dell’appoggio americano durante la procedura di impeachment nei suoi confronti proprio a causa della sua condotta che, in questi anni, ha favorito il consolidamento della partnership economico-commerciale tra Seoul e Pechino.

Queste dinamiche deve averle ben presenti anche il neo-presidente Moon, visto che già prima del voto si era dato da fare per rassicurare l’amministrazione Trump circa la sua intenzione di non destabilizzare l’alleanza tra i due paesi.

Significativa e rivelatrice a questo proposito è stata un’intervista concessa da Moon al Washington Post e pubblicata una settimana esatta prima del voto in Corea del Sud. Alla domanda se la sua futura amministrazione avrebbe preso in considerazione un possibile “riequilibrio” dell’alleanza con gli USA, la risposta di Moon è stata un secco “no”.

Il candidato del Partito Democratico sudcoreano aveva poi spiegato che l’alleanza con Washington è per lui il “fondamento della politica estera e della sicurezza nazionale” del suo paese. Per questa ragione, proseguiva Moon, Stati Uniti e Corea del Sud “lavoreranno di comune accordo sulla questione del nucleare” di Pyongyang, mentre Seoul non prenderà alcuna iniziativa indipendente.

La disponibilità teorica a discutere direttamente con Kim Jong-un, sia pure ribadita da Moon, dipende poi dall’esistenza di determinate condizioni, ovvero quelle dettate dagli USA e che consistono sostanzialmente nell’improbabile rinuncia preventiva al proprio programma nucleare da parte nordcoreana.

Molto più morbide rispetto al recente passato sono state infine anche le posizioni delineate da Moon sul già ricordato THAAD. Il leader del Partito Democratico sudcoreano ha confermato le sue riserve per la decisione americana di accelerarne l’installazione, ma si è alla fine limitato a chiedere un processo decisionale condiviso tra Washington e Seoul, necessario in definitiva solo a far digerire alla popolazione l’impopolare sistema anti-missile ormai in fase di attivazione.

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