di Mario Lombardo

Quando a inizio della prossima settimana il presidente turco Erdoğan incontrerà Donald Trump alla Casa Bianca, una delle questioni principali all’ordine del giorno sarà senza dubbio la recente decisione di Washington di fornire armi in maniera diretta alla milizia curda YPG (“Unità di Protezione Popolare”) in preparazione dell’offensiva contro la roccaforte dello Stato Islamico (ISIS) nella città siriana di Raqqa.

Il tempismo dell’annuncio è stato giudicato da molti inopportuno, con una delegazione del governo di Ankara già a Washington per preparare la visita di Erdoğan e impegnata con esponenti dell’amministrazione Trump a discutere proprio delle modalità relative all’operazione militare a Raqqa.

Prevedibilmente, la decisione americana di armare direttamente l’YPG ha scatenato una valanga di reazioni rabbiose in Turchia, il cui governo considera questa milizia un’organizzazione terroristica, in quanto affiliata al PKK, com’è noto impegnato in un conflitto sanguinoso all’interno dei confini turchi.

La mossa di Trump ha modificato la politica dell’amministrazione Obama, attenta a far giungere armi alle formazioni curde attive in Siria solo attraverso forniture alle cosiddette Forze Democratiche Siriane, cioè la fazione dell’opposizione al regime di Assad appoggiata dagli USA in cui svolge un ruolo di primissimo piano proprio l’YPG.

Vista la situazione sul campo, la Casa Bianca è giunta alla conclusione che le milizie curde sono le più adatte a guidare per conto di Washington un attacco all’ISIS a Raqqa, sia per le capacità belliche dimostrate sia perché non compromesse, come quasi tutti gli altri gruppi anti-Assad, da tendenze e legami con il fondamentalismo sunnita.

La decisione ha però subito fatto salire le tensioni tra Washington e Ankara. In una conferenza stampa organizzata mercoledì, Erdoğan ha avuto parole molto dure per l’alleato americano, dichiarando che la pazienza del suo paese “è terminata” prima di chiedere agli Stati Uniti se intendono stare con la Turchia o “con un’organizzazione terroristica”.

Nel corso di una visita in Montenegro, anche il ministro degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu, ha espresso la propria irritazione, avvertendo che ogni singola arma nelle mani delle forze curde rappresenta una minaccia alla Turchia.

La stampa americana ha poi citato membri del governo di Ankara che avrebbero informato l’amministrazione Obama di come la Turchia si riservi il diritto di agire militarmente contro l’YPG. Nelle scorse settimane, Erdoğan ha peraltro già autorizzato bombardamenti diretti contro le postazioni dei guerriglieri curdi in Siria appoggiati dagli Stati Uniti. Dopo la decisione presa da Trump questa settimana, l’iniziativa militare turca potrebbe intensificarsi sensibilmente.

Lo scontro diplomatico causato dall’annuncio delle forniture dirette di armi ai curdi siriani, come ha spiegato ad esempio mercoledì il Washington Post, è la conseguenza del dilemma posto al governo americano dall’operazione per la “liberazione” di Raqqa dall’ISIS.

Da un lato, l’offensiva in preparazione da tempo è ritenuta fondamentale dagli USA per il definitivo ridimensionamento del “califfato” e la relativa stabilizzazione della Siria, necessaria per consentire il riorganizzarsi delle forze che dovranno cercare di rovesciare il regime di Damasco.

Dall’altro, però, l’unica opzione sembra essere sempre più quella di utilizzare le milizie curde dell’YPG per la conduzione della gran parte delle operazioni militari, con il risultato, come si è visto in questi giorni, di mettere in crisi il rapporto con la Turchia.

Washington ha d’altra parte respinto le proposte presentate da Ankara per creare un’alleanza militare alternativa a quella basata sull’YPG, per via, tra l’altro, della natura fondamentalista delle forze di opposizione sostenute dalla Turchia in Siria. Allo stesso modo, oltre a escludere com’è ovvio l’appoggio a un’operazione delle forze governative siriane, ciò che resta delle formazioni sostenute clandestinamente dalla CIA risultano ormai inefficaci o, ancor più, sottomesse alla filiale di al-Qaeda in Siria.

Che si vada verso un’operazione guidata dai curdi, comunque, sembra a molti ormai inevitabile, visto anche che proprio mercoledì le Forze Democratiche Siriane, dominate dall’YPG, hanno annunciato la conquista della più grande diga della Siria e della città di Tabqa, già nelle mani dell’ISIS e considerate come l’ultimo principale ostacolo sulla strada per Raqqa.

La minacciata escalation militare della Turchia contro l’YPG rischierebbe però di compromettere la stessa operazione su Raqqa, da cui le forze curde potrebbero essere distolte. Questo timore è avvertito anche a Washington ed è testimoniato dai tentativi messi in atto per rassicurare Erdoğan.

Il segretario alla Difesa americano, James Mattis, ha garantito questa settimana che il suo paese intende coordinare con Ankara le azioni da intraprendere per evitare qualsiasi minaccia alla sicurezza della Turchia eventualmente derivante dalla decisione di fornire armi all’YPG. In maniera inquietante, lo stesso numero uno del Pentagono ha anche ipotizzato una collaborazione con le forze di sicurezza turche per “identificare e tracciare” i movimenti dei guerriglieri del PKK.

Sui media filo-governativi turchi, invece, sono stati moltissimi i commenti allarmati per la decisione dell’amministrazione Trump. La sensazione prevalente è quella di un’ulteriore incrinatura dei rapporti bilaterali se non dovesse esserci un passo indietro da parte di Washington.

Parallelamente, tuttavia, si intravede anche una certa disponibilità ad attendere l’esito dell’imminente faccia a faccia tra Erdoğan e Trump, nella speranza di un qualche ripensamento della strategia siriana degli Stati Uniti.

L’interpretazione del governo di Ankara circa la decisione USA di armare i curdi in Siria sembra infatti lasciare qualche spazio di manovra alla Casa Bianca. La testata Daily Sabah ha a questo proposito scritto giovedì che l’iniziativa ratificata qualche giorno fa da Trump era in realtà un piano di Obama e che membri della precedente amministrazione rimasti al loro posto dopo le elezioni, tra cui il rappresentante degli USA per la “coalizione” anti-ISIS, Brett McGurk, avrebbero fatto pressioni sul nuovo presidente per ottenerne l’approvazione prima della visita di Erdoğan.

Il vertice di settimana prossima a Washington si annuncia perciò particolarmente teso e metterà alla prova le aspettative di Ankara verso la nuova amministrazione Repubblicana, così come i propositi di distensione di Trump con un governo che, a partire dal fallito colpo di stato ai danni di Erdoğan del luglio scorso, continua a vedere con sospetto l’alleato americano.

In ultima analisi, comunque, le nuove frizioni con la Turchia sono solo la più recente conseguenza della disastrosa strategia degli Stati Uniti in Siria, inaugurata dall’amministrazione Obama e che Trump è ancora molto lontano dal mostrare di essere in grado di correggere senza aggravare ulteriormente il bagno di sangue nel paese mediorientale.

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