di Michele Paris

Quello che mercoledì è stato descritto come il primo attacco in assoluto dell’ISIS in territorio iraniano sembra essere più precisamente una drammatica accelerazione della guerra dichiarata dalle monarchie sunnite del Golfo Persico alla Repubblica Islamica, con il pieno appoggio dell’amministrazione Trump. L’attentato contro la sede del parlamento e il mausoleo dell’ayatollah Khomeini a Teheran ha causato dodici vittime e più di 40 feriti, prima che i sei assalitori fossero eliminate dalle forze di sicurezza iraniane.

Lo Stato Islamico ha rivendicato poco dopo l’operazione, anche se le autorità dell’Iran non hanno finora confermato l’eventuale affiliazione dei responsabili. In molti hanno anche evidenziato come l’ISIS non avesse mai avuto cellule o affiliati nel territorio della Repubblica Islamica, tanto da far pensare a una possibile azione condotta da manodopera riconducibile a gruppi diversi, a cominciare dai cosiddetti Mujahedeen-e-Khalq (MEK), già coinvolti nel recente passato negli omicidi di alcuni scienziati nucleari iraniani, probabilmente sotto la guida israeliana.

Al di là dell’identità degli autori materiali, è evidente che la strage è riconducibile a quei regimi che utilizzano il terrorismo per la promozione dei propri interessi, primo fra tutti quello dell’Arabia Saudita, principale rivale strategico dell’Iran in Medio Oriente.

L’attacco di mercoledì a Teheran è di fatto la diretta conseguenza di due eventi accaduti nelle ultime settimane. Il primo è la visita del presidente americano Trump a Riyadh, dove aveva indicato l’Iran come la minaccia numero uno alla stabilità della regione e sponsor del terrorismo internazionale. La presa di posizione di Trump assecondava l’isteria anti-iraniana del regime saudita, anticipando la fine delle politiche relativamente distensive nei confronti di Teheran dell’amministrazione Obama.

Il secondo evento è la recente rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar da parte dell’Arabia Saudita e di alcuni altri regimi vassalli nel mondo arabo. L’iniziativa nei confronti di Doha è da collocare ancora una volta nel quadro della rivalità tra Riyadh e Teheran, dal momento che il piccolo paese del Golfo Persico vanta solidi rapporti diplomatici ed economici con la Repubblica Islamica.

L’appoggio alla linea anti-iraniana ottenuto dalla Casa Bianca ha così consentito ai sauditi di intensificare l’offensiva contro Teheran, concretizzatasi prima con la messa al bando del Qatar, nel tentativo di piegare l’emirato troppo accomodante nei confronti dello sciismo, e probabilmente mercoledì con l’attentato al parlamento e al mausoleo di Khomeini.

Ai primi di maggio, il vice-erede al trono saudita, il giovane principe Mohammed bin Salman, considerato il vero manovratore della sempre più aggressiva politica estera del regno, aveva anticipato in un’intervista ampiamente diffusa dalla stampa occidentale l’offensiva in fase di preparazione contro l’Iran. Mohammed aveva tra l’altro affermato che la battaglia per l’influenza sul Medio Oriente tra sunniti e sciiti sarebbe stata combattuta “all’interno dell’Iran”.

Questa interpretazione è stata data anche dalle autorità iraniane. In particolare, mercoledì i Guardiani della Rivoluzione hanno emesso un comunicato nel quale hanno puntato il dito contro Riyadh. La dichiarazione fa notare come “l’attacco terroristico è avvenuto una settimana dopo l’incontro tra il presidente americano e i vertici di uno dei governi mediorientali più reazionari”, quello saudita, descritto come “costante sostenitore del terrorismo fondamentalista”.

Visti proprio gli sviluppi delle ultime settimane, è difficile pensare che l’offensiva contro l’Iran, di cui fa parte con ogni probabilità anche l’attentato di mercoledì, sia stata messa in atto senza il consenso di Washington. Il governo americano ha d’altra parte reagito in maniera a dir poco blanda ai fatti di Teheran. Molte ore dopo la diffusione della notizia dell’attacco, il dipartimento di Stato ha emesso solo un comunicato generico di condanna ed espresso il cordoglio per i famigliari delle vittime.

Più in generale, i morti di Teheran segnano un’ulteriore aggravamento del quadro internazionale e, in particolare, di quello mediorientale. L’attentato, vista anche la rilevanza degli obiettivi, intende dimostrare la capacità del terrorismo jihadista, e dei suoi sponsor, di colpire anche paesi finora relativamente risparmiati da episodi di sangue, allargando il fronte del conflitto in atto.

Ciò, a sua volta, non può che provocare la reazione dei governi colpiti, come hanno ad esempio già promesso i Guardiani della Rivoluzione. Da un’intensificazione della guerra in Siria e di quella in Yemen all’ulteriore allargamento delle divisioni settarie nella regione, le conseguenze della strategia destabilizzante promossa dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati rischiano di infiammare sempre di più un Medio Oriente già a un passo da una pericolosa conflagrazione.

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