di Michele Paris

A cinque mesi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, la strategia della nuova amministrazione repubblicana per la guerra in Afghanistan è ancora ben lontana dall’essere definita. Mentre il Pentagono sta ultimando la propria analisi della situazione nel paese centro-asiatico, che sarà presentata al presidente entro la metà di luglio, già da ora appare evidente che i piani futuri includeranno un nuovo aumento delle truppe di occupazione e l’assegnazione di maggiori poteri decisionali ai vertici militari.

Il dibattito politico a Washington sull’Afghanistan è tornato all’ordine del giorno in concomitanza con una serie di eventi sanguinosi. Attacchi e attentati suicidi, attribuiti o rivendicati dai Talebani o dalla costola afgana dello Stato Islamico (ISIS), hanno mostrato impietosamente il fragilissimo controllo sul paese esercitato dal governo-fantoccio di Kabul e dalle forze della NATO.

Dopo quasi sedici anni di guerra e occupazione, lo stato afgano continua a essere allo sbando, povertà e corruzione sono dilaganti e le forze di sicurezza indigene, per l’addestramento delle quali sono state spese decine di miliardi di dollari, totalmente inadeguate. Il processo di pace con i Talebani è ugualmente in attesa di essere avviato, mentre questi ultimi controllano oggi tra il 40% e il 60% del territorio dell’Afghanistan.

In questo quadro, anche le dichiarazioni ufficiali moderatamente ottimistiche di politici e militari americani sull’andamento della guerra hanno da tempo lasciato spazio all’ammissione più o meno esplicita del fallimento. Settimana scorsa, nel corso di un’audizione al Congresso il segretario alla Difesa, generale James Mattis, aveva ad esempio affermato che gli USA “non stanno vincendo in Afghanistan”, per poi promettere un’ulteriore dose della medicina che in questi anni non ha provocato altro che morte e distruzione nel paese occupato.

Mattis ha velatamente criticato la strategia dell’amministrazione Obama di ritirare la gran parte del contingente americano dall’Afghanistan. Alcune indiscrezioni riportate dai giornali americani hanno rivelato come il Pentagono starebbe valutando un aumento delle truppe di occupazione pari a qualche migliaia di uomini. La cifra più probabile sembra essere di cinquemila, in aggiunta ai 9.800 già presenti sul campo.

Gli aspetti più significativi della nuova strategia in fase di elaborazione sono la facoltà, garantita dalla Casa Bianca al dipartimento della Difesa, di stabilire in autonomia il numero di soldati ritenuti necessari a cambiare le sorti del conflitto e l’impiego esplicito dei soldati USA in operazioni di combattimento. Quest’ultima misura sostituirebbe la direttiva di Obama che, almeno ufficialmente, assegna alla maggior parte delle truppe di occupazione il semplice ruolo di “consiglieri” dell’esercito afgano. Le rimanenti forze impiegate nel paese sono impegnate invece in operazioni di “anti-terrorismo”.

Al di là del numero esatto di uomini che saranno spediti a combattere e a morire in Afghanistan, in pochi a Washington credono realmente che l’aumento del contingente di occupazione possa risultare decisivo per invertire la rotta. Gli Stati Uniti, assieme agli alleati NATO, hanno avuto d’altra parte in passato un picco di oltre 100 mila uomini in Afghanistan e ciò non ha in pratica generato alcun effetto positivo sulla guerra agli “insorti”.

Con un’impasse difficile se non impossibile da rompere e alla luce dei conflitti in cui gli Stati Uniti sono coinvolti in altre parti del pianeta, l’obiettivo non dichiarato della guerra in Afghanistan potrebbe essere perciò quello di aumentare le forze di occupazione il tanto necessario per mantenere in vita il governo di Kabul e, in attesa di tempi migliori, perpetuare la propria presenza in un paese cruciale per gli equilibri strategici centro-asiatici.

Se cambiamenti significativi degli scenari di guerra non sono previsti praticamente da nessuno, qualunque siano le decisioni finali di Trump sull’Afghanistan, l’intensificazione dell’impegno militare americano che si prospetta finirà di certo per inasprire il conflitto e provocare un nuovo aumento delle vittime, sia tra i civili sia tra le forze di occupazione e gli “insorti”.

L’amministrazione Trump ha ad ogni modo già autorizzato un aumento delle operazioni in Afghanistan, come hanno dimostrato il moltiplicarsi degli attacchi aerei condotti negli ultimi mesi dalle forze USA e il lancio nel mese di aprile contro un’area controllata dai Talebani del più grande e distruttivo ordigno non-nucleare mai utilizzato in combattimento.

La definizione della strategia afgana e, soprattutto, la situazione disastrosa in cui si trova il paese e il dispendio di risorse che la guerra ha comportato stanno facendo emergere le profonde divisioni che attraversano gli ambienti di poteri negli Stati Uniti.

I malumori dell’apparato militare americano sono stati espressi ad esempio questa settimana dal senatore repubblicano John McCain, il quale in un intervento pubblico ha citato il recente assassinio di militari americani da parte di un soldato dell’esercito afgano come il simbolo del fallimento dell’occupazione e il punto di partenza per imprimere un’illusoria “svolta” alla campagna bellica più lunga della storia degli Stati Uniti.

McCain, tra i più feroci oppositori di Trump nel Partito Repubblicano, ha denunciato l’assenza di una strategia chiara per l’Afghanistan, anche se le sue critiche non offrono nessuna via d’uscita percorribile dal conflitto, basandosi fondamentalmente sull’imprescindibilità di un aumento dell’impegno militare.

Con il probabile avvicinarsi della conclusione della revisione strategica americana per l’Afghanistan, martedì la Reuters ha anticipato alcune iniziative che la Casa Bianca potrebbe autorizzare nel prossimo futuro, pur mettendo in guardia dal carattere non ancora definitivo dei provvedimenti ipotizzati.

Secondo le fonti citate dall’agenzia di stampa, Trump e il Pentagono starebbero valutando la possibilità di esercitare pressioni sul governo del Pakistan, da tempo ritenuto troppo tenero nei confronti dei gruppi fondamentalisti armati che troverebbero rifugio o protezione entro i propri confini e che risultano attivi in Afghanistan.

Per convincere Islamabad a rompere i legami con gruppi come quello degli Haqqani, considerato responsabile di svariati attentati in territorio afgano, gli USA potrebbero ricorrere alla minaccia di maggiori incursioni con i droni nelle aree tribali del Pakistan, di tagliare i finanziamenti destinati alle forze armate di questo paese o di cancellare lo status di “alleato non appartenente alla NATO” che, a sua volta, garantisce il flusso di determinati equipaggiamenti militari.

La questione dell’approccio al Pakistan è però estremamente delicata e non è vista in maniera univoca dalle varie sezioni dell’apparato militare e governativo americano. Eccessive pressioni su questo paese potrebbero infatti provocare l’effetto opposto a quello desiderato, poiché la classe dirigente pakistana è già fortemente sospettosa delle intenzioni americane in Afghanistan e nella regione centro-asiatica.

Un atteggiamento ancora più ostile nei confronti di Islamabad potrebbe spingere il Pakistan ancor più verso la Cina, con la quale i rapporti storicamente cordiali si sono ulteriormente intensificati negli ultimi anni, e a continuare a puntare su determinate fazioni talebane per mantenere la propria influenza sulla realtà afgana.

Puntare il dito contro il Pakistan per la situazione disastrosa di Kabul è comunque un esercizio non nuovo da parte degli Stati Uniti e serve a evitare un’analisi onesta della fallimentare politica estera americana. Per cominciare, le accuse al Pakistan non tengono in considerazione il prezzo altissimo pagato da questo paese e, soprattutto, dalla sua popolazione per la “guerra al terrore” promossa da Washington.

Inoltre, chiedere al Pakistan di tagliare i legami pure esistenti tra i suoi servizi segreti e i gruppi militanti attivi in Afghanistan è semplicemente inutile se non si affrontano le ragioni che stanno alla base di questi stessi rapporti. Non solo l’ambiguità nei confronti del fondamentalismo islamista in Pakistan è da collegare proprio alle strategie anti-sovietiche americane in Afghanistan, ma questa politica mai abbandonata del tutto da Islamabad dipende in larga misura dall’evoluzione del comportamento degli Stati Uniti nella regione.

Fin dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush, gli USA hanno cercato costantemente di integrare l’India, vale a dire l’arci-nemico storico del Pakistan, nella propria strategia centro-asiatica, con l’obiettivo di sottrarre Nuova Delhi dall’orbita russa e, soprattutto, di controbilanciare l’espansionismo cinese.

Questa iniziativa, accelerata da Obama, ha previsto da subito un ruolo di spicco per l’India in Afghanistan, suscitando inevitabilmente le ansie del Pakistan, vistosi accerchiato e potenzialmente escluso dal vicino occidentale, considerato tradizionalmente all’interno della propria sfera di influenza.

Le decisioni che l’amministrazione Trump prenderà sull’Afghanistan nelle prossime settimane e nei prossimi mesi avranno quindi riflessi su tutti gli scenari più caldi dell’Asia centro-meridionale e proprio queste implicazioni, assieme all’assenza di prospettive ottimistiche per il conflitto in corso dal 2001, stanno ritardando in maniera insolita la formulazione di una strategia coerente o anche solo apparentemente percorribile.

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