Dopo mesi passati a cercare le prove del “Russiagate”, gli Stati Uniti scoprono di avere la Russia in casa. Nella californiana Silicon Valley, per la precisione. Si chiama Facebook. Sono partiti da lì, e non da misteriosi hacker nascosti fra gli Urali, i dati che poco più di un anno fa hanno permesso a Donald Trump di giocare sporco e di vincere le elezioni presidenziali contro Hillary Clinton.

 

Da quando è scoppiato lo scandalo, il social network più diffuso al mondo è al centro di un tiro al bersaglio sul Nasdaq capace di bruciare oltre 50 miliardi di dollari in un paio di sedute. Il suo padre fondatore, Mark Zuckerberg, ne è uscito con parecchi soldi in meno e soprattutto con un’immagine irrimediabilmente infangata.

 

 

Si diceva che il 30enne multimiliardario avesse velleità politiche, ma ormai è chiaro che i Democratici dovranno cercare altrove il loro homo novus. Ciò che più conta, tuttavia, non è il dolore del giovane Mark, che non ha saputo proteggere i dati dei suoi utenti. L’anima nera di questa storia è un’altra: Steve Bannon.

 

Proprio lui, il paffuto teorico del suprematismo bianco, consigliere e stratega politico di Trump durante la campagna elettorale del 2016 e nella prima fase post-elezioni. Ormai è uscito dal cono di luce, caduto in disgrazia nel volgere di pochi mesi a causa degli attriti con la coppia Ivanka-Jared Kushner, ossia la figlia del Presidente e il di lei marito.

 

Eppure, Bannon ha svolto senz’altro un ruolo decisivo nella vittoria di Trump. E ora conosciamo anche l’arma più potente che ha usato.

Nel 2013 il buon Steve ha indotto Robert Mercer, insolito miliardario reazionario cresciuto nella Silicon Valley, a sborsare 15 milioni di dollari in favore della divisione politica di Cambridge Analytica. Si tratta di una costola degli Strategic Communication Laboratories, società inglese fondata nel 1990 che raccoglie i dati, li analizza e li usa per campagne stampa o di propaganda.

 

È qui che nasce lo scandalo. Dopo aver lavorato un po’ per il candidato fascistoide Ted Cruz, Cambridge Analytica si sposta su The Donald. A quel punto entra in gioco il suo cavallo di Troia: “Thisisyourdigitallife”, un’app per Facebook che prima di attivarsi chiedeva agli utenti l’accesso ai dati personali.

 

Hanno cliccato su “accetto” in 270mila e, attraverso la loro rete di amicizie, l’applicazione ha raccolto informazioni da 51 milioni di profili. I dati sono passati nel 2015 a Cambridge Analytica, che li ha usati per realizzare il marketing più potente al mondo, quello personalizzato. Solo che non vendeva scarpe o portafogli in pelle. Vendeva Donald Trump.

 

Il peso dei big data è tale che chi ne gestisce una mole considerevole può orientare non solo le scelte di consumo, ma anche il dibattito civile e sociale, l’agenda politica e mediatica, per non parlare degli orientamenti elettorali. Di per sé, questa non è una novità.

 

A preoccupare è il fatto che Facebook - un impero costruito proprio sulla raccolta e lo smercio dei big data - si sia rivelato assai più vulnerabile del previsto. E che ad approfittarne siano stati gli esponenti dell’estrema destra americana, un’accolita di personaggi suprematisti, sovranisti e razzisti. Ma anche più russi dei russi, a quanto pare.

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