Le esili speranze dell’opposizione ungherese, per una possibile flessione dei consensi raccolti dal partito di governo Fidesz nelle elezioni di domenica scorsa, sono state frustrate dal terzo nettissimo successo consecutivo del primo ministro di estrema destra, Viktor Orbán. Quest’ultimo potrà contare nuovamente su una supermaggioranza in parlamento, che gli consentirà potenzialmente di cambiare la costituzione a piacimento e di proseguire nella costruzione di un sistema sempre più autoritario dai toni marcatamente xenofobi.

 

 

Fidesz si è assicurato 133 dei 199 seggi in palio nel fine settimana, migliorando il risultato del voto del 2014 e mostrando l’infondatezza delle preoccupazioni circolate negli ultimi tempi tra gli ambienti di potere a Budapest. Una certa inquietudine era emersa dopo la sconfitta nel mese di febbraio in un’elezione locale in una città considerata tra le roccaforti di Fidesz e che questo partito aveva in precedenza sempre vinto con percentuali vicine o superiori al 60%.

 

Alcuni scandali legati a episodi di corruzione e una situazione sociale ben diversa dagli scenari economici ottimistici dipinti dal governo avevano contribuito inoltre a fare sperare in molti in un cambiamento del clima politico in Ungheria. La retorica populista e ultra-nazionalista di Orbán e del suo partito si è mostrata invece nuovamente vincente, grazie anche a due fattori: lo sbando dell’opposizione e il crescente controllo governativo sulle strutture del potere e sui mezzi di comunicazione.

 

La mancanza di un’alternativa valida a Orbán è stata confermata dalla nuova pessima prestazione del partito socialdemocratico MSZP, in grado di superare a malapena il 12% e di conquistare una ventina di seggi. Oltre al discredito accumulato a causa delle politiche neo-liberiste perseguite in vari mandati a partire dalla prima metà degli anni Novanta, l’MSZP aveva anche assistito alla fuoriuscita del suo ultimo premier, Ferenc Gyurcsany. L’ex primo ministro aveva creato un suo partito, la Coalizione Democratica (DK), fermatosi domenica al 5,5%.

 

I risultati degli altri due principali partiti entrati in parlamento sono ugualmente significativi. La formazione di estrema destra Jobbik è diventata la seconda forza politica ungherese, pur senza riuscire a sfondare. La svolta relativamente moderata dei suoi leader, in precedenza attestati su posizioni apertamente neo-fasciste, ne ha fatto una sorta di copia di Fidesz, favorendo quindi il partito di governo. Nonostante una campagna elettorale dominata dalla demonizzazione degli immigrati, cioè un tema particolarmente caro a Jobbik, questo partito ha alla fine perso quasi un punto percentuale rispetto a quattro anni fa.

 

I Verdi (LMP) hanno invece incrementato in modo considerevole la loro quota di voti fino a sfiorare il 7%. Verso questo movimento è sembrata indirizzarsi una parte degli elettori ungheresi ostili a Fidesz ma ugualmente intenzionati a punire i tradizionali partiti di opposizione. I leader dell’MSZP, di Jobbik e dell’LMP si sono comunque tutti dimessi dai loro incarichi nelle ore successive al voto.

 

Nel quadro politico descritto, Orbán ha potuto capitalizzare al massimo la sua campagna anti-migranti e l’appello nazionalista per salvare l’identità ungherese e cristiana, a suo dire in pericolo di fronte alla fantomatica minaccia di un’invasione di massa. Il richiamo ai sentimenti xenofobi è apparso efficace anche e soprattutto per il sovrapporsi di esso ai toni anti-europeisti.

 

Se l’ostilità della maggior parte degli ungheresi, così come degli elettori di molti altri paesi, nei confronti dell’Unione Europea è del tutto legittima e comprensibile, la strategia dei populisti di destra come Orbán è quella di dirottare questo sentimento in primo luogo verso le politiche migratorie di Bruxelles piuttosto che su quelle economiche e finanziarie.

 

A un’analisi razionale della situazione ungherese, peraltro, l’allarme suonato da Fidesz sull’orda di migranti pronti a invadere il paese è a dir poco risibile. In Ungheria sono infatti presenti poche migliaia di rifugiati, a causa anche della sostanziale chiusura dei confini negli anni scorsi nel quadro della brutale soppressione della cosiddetta “rotta balcanica”.

 

La propaganda di Orbán ha avuto anche sfumature più o meno celatamente anti-semite. Ciò è risultato evidente nella campagna di demonizzazione del miliardario americano vicino al Partito Democratico, George Soros. Se quest’ultimo è effettivamente attivo nel finanziare movimenti di opposizione a governi e regimi sgraditi a Washington in vari paesi, l’obiettivo di Orbán è del tutto reazionario e punta più che altro a sfruttare questa presunta minaccia per alimentare il nazionalismo ungherese e promuovere l’identità cristiana del paese.

 

L’agitazione dello spettro di Soros è al centro anche dei progetti di Fidesz per mettere in atto un altro giro di vite sulla libertà di stampa e di espressione in Ungheria dopo il recentissimo successo elettorale. Un progetto di legge già allo studio minaccia cioè di mettere fuori legge molte organizzazioni non governative, in quello che sarebbe l’ennesimo colpo alla società civile ungherese.

 

Orbán ha poi già prospettato un nuovo assalto ai media indipendenti ancora presenti sul mercato ungherese, dopo che negli anni scorsi ha in buona parte già ridotto al silenzio le voci critiche del governo. Un ulteriore sforzo per restringere ancora di più l’indipendenza della magistratura è infine largamente previsto dagli osservatori del paese mitteleuropeo.

 

Gli interventi precedenti in questo ambito avevano già creato un grave conflitto tra Budapest e Bruxelles, con la minaccia di iniziative in sede europea che aveva convinto Orbán a fare qualche modesta concessione. Il rafforzamento del suo partito dopo il voto di domenica potrebbe così innescare ben presto nuove frizioni tra l’Ungheria e l’UE, anche se in realtà le ragioni del conflitto devono essere ricercate soprattutto altrove.

 

Il primo ministro ungherese è puntualmente condannato dall’Europa e dagli Stati Uniti per i rapporti più che cordiali che continua a mantenere con la Russia di Putin. Relazioni che riguardano vari ambiti, tra cui quello energetico, come conferma un accordo con Mosca per l’ampliamento di una centrale nucleare del valore di svariati miliardi di euro. Non a caso, nelle scorse settimane i media occidentali ufficiali hanno spesso parlato delle presunte interferenze russe nella campagna elettorale ungherese.

 

Orbán e il suo partito sono frequentemente accomunati alla galassia dell’estrema destra europea e, infatti, partiti come il Fronte Nazionale francese, quello della Libertà olandese, l’Alternativa per la Germania, ma anche Lega Nord e Fratelli d’Italia, hanno esultato per l’esito del voto di domenica in Ungheria.

 

Fidesz, tuttavia, fa parte del gruppo centrista del Partito Popolare Europeo e, ad esempio, ha legami piuttosto stretti con il Partito Cristiano Sociale tedesco (CSU), formazione gemella della CDU di Angela Merkel. Il numero uno della CSU, nonché ministro degli Interni del governo di Berlino, Horst Seehofer, si è complimentato calorosamente con Orbán per la vittoria elettorale, sottintendendo una certa comunanza di intenti nell’ambito delle politiche migratorie, di cui in Germania si occupa appunto il dicastero dello stesso politico bavarese.

 

Sia pure rimanendo le riserve legate agli orientamenti filo-russi del governo di Budapest, anche altri leader europei, da Juncker alla Merkel, si sono congratulati in maniera più o meno sommessa con Orbán. Ciò conferma ancora una volta l’esistenza di un processo, visibile in Ungheria come in Francia, in Germania e in Italia, che sta determinando la progressiva legittimazione e integrazione nel quadro politico occidentale di forze di estrema destra fino a pochi anni fa considerate come frange estreme da emarginare.

 

Questa dinamica non è il frutto di svolte “centriste” operate da questi partiti, bensì al contrario della deriva verso destra del baricentro politico tradizionale sulla spinta delle crescenti tensioni sociali e dell’inasprimento della competizione economica e strategica sul fronte internazionale.

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