A quindici mesi dalla decisione di ritirare gli Stati Uniti dalla “Partnership Trans-Pacifica” (TPP), il presidente americano Trump sembra avere riconsiderato il suo giudizio sul controverso trattato di libero scambio tra una dozzina di paesi asiatici e del continente americano, giungendo a ritenerlo tutto sommato uno strumento utile nella guerra commerciale appena iniziata contro la Cina.

 

 

Durante la campagna elettorale del 2016, Trump aveva criticato duramente il TPP, negoziato negli anni precedenti dall’amministrazione Obama. Il futuro presidente aveva cavalcato l’ostilità diffusa negli USA verso gli accordi di libero scambio, principalmente perché considerati responsabili dello spostamento di posti di lavoro all’estero, per poi mantenere la promessa di far di fatto naufragare il TPP già il giorno successivo al suo insediamento alla Casa Bianca.

 

La denuncia del TPP rientrava nella strategia protezionistica e ultra-nazionalista di Trump e della destra del Partito Repubblicano che lo appoggia. Simili trattati multilaterali, nell’ottica del presidente, avrebbero dovuto essere sostituiti da accordi bilaterali con determinati paesi, così da estrarre più facilmente condizioni favorevoli all’economia americana.

 

Dopo settimane durante le quali erano circolate più volte voci di un possibile ripensamento sul TPP, qualche giorno fa Trump ha affrontato personalmente la questione nel corso di un incontro con governatori e membri del Congresso di alcuni stati prevalentemente rurali che rischiano di essere penalizzati dal confronto in atto tra Washington e Pechino sui dazi doganali.

 

Trump avrebbe chiesto al rappresentante per il commercio americano, Robert Lighthizer, e al neo-consigliere economico della Casa Bianca, Larry Kudlow, di verificare se vi sia la possibilità per gli Stati Uniti di tornare ad aderire al TPP, sia pure in una forma diversa da quella negoziata dall’amministrazione Obama.

Dopo il ritiro dello scorso anno annunciato da Trump, la sorte del TPP era sembrata segnata. Nei mesi successivi, però, i rimanenti 11 paesi che lo avevano sottoscritto (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda , Perù, Singapore e Vietnam) avevano deciso di procedere con la ratifica dell’accordo anche senza gli Stati Uniti, sperando comunque che un futuro cambio di governo a Washington avrebbe finito di nuovo per coinvolgere la prima economia del pianeta.

 

Lo scorso mese di marzo è così nato il CPTPP (“Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership”) e i paesi che ne fanno parte rappresentano circa il 13% del PIL mondiale. La firma del nuovo accordo è stata resa possibile in primo luogo grazie allo stralcio di alcune clausole controverse, volute in particolare proprio dagli USA, come quelle sulla proprietà intellettuale e il ricorso all’arbitrato in caso di dispute. Inoltre, molti governi, a cominciare da quello giapponese, avevano investito parecchio capitale politico sul fronte domestico per far digerire il trattato a quei settori dell’economia che avrebbero potuto soffrirne, così che hanno alla fine deciso di provare a raccogliere i frutti del negoziato anche senza gli Stati Uniti.

 

Che l’amministrazione Trump sia in grado di ottenere le concessioni volute per rientrare nel TPP è comunque tutt’altro che certo. Il giorno dopo l’annuncio dell’intenzione del presidente americano di tornare sui propri passi, gli 11 aderenti al trattato di libero scambio hanno chiarito che, se anche gli USA sarebbero in teoria i benvenuti, c’è poco interesse a riaprire negoziati estenuanti. Il responsabile del TPP per il governo giapponese, Toshimitsu Motegi, ha spiegato che “sarà difficile cambiare l’accordo”, visto che quello approvato risulta estremamente “bilanciato”, nonché “fragile come il cristallo”.

 

Nuove trattative per accogliere le richieste americane potrebbero sollevare malumori tra gli altri paesi. Soprattutto, i governi che hanno dato vita al CPTPP hanno potuto toccare con mano in questi mesi quali sono le inclinazioni degli Stati Uniti in ambito commerciale e temono di essere esposti alle stesse tattiche intimidatorie adottate unilateralmente nei confronti della Cina, dei paesi produttori di acciaio e alluminio o dei membri del NAFTA (“Trattato di Libero Scambio Nordamericano”).

 

Sull’ammorbidimento di Trump riguardo il TPP hanno comunque influito le continue pressioni dei settori dell’economia USA che avrebbero beneficiato dall’apertura dei mercati di alcuni paesi coinvolti nell’accordo. Tra di essi ci sono quelli agricoli, verso i quali la Casa Bianca è chiamata anche ad adottare misure per attenuare le conseguenze delle possibili ritorsioni cinesi in risposta alle tariffe doganali applicate recentemente da Washington. Pechino ha infatti prospettato l’imposizione di dazi sulle esportazioni di prodotti agricoli americani se l’amministrazione Trump dovesse passare alla nuova fase di misure protezionistiche annunciate contro la Cina.

 

L’escalation dello scontro con Pechino è l’altra ragione principale che ha spinto Trump a riconsiderare il TPP, assieme al progressivo isolamento in cui si ritrovano gli Stati Uniti in seguito all’irrigidimento delle loro posizioni sul commercio internazionale. Il sostanziale ripudio delle regole consolidate in questo ambito, per percorrere la strada del protezionismo, ha favorito proprio la Cina, la cui influenza in Asia e non solo è già da tempo in fase nettamente ascendente.

In questo quadro, come hanno spiegato svariati commentatori nei giorni scorsi, l’amministrazione Trump ha finito per rivalutare l’utilità del TPP, fondamentalmente allo scopo di integrare una serie di alleati e potenziali alleati nei propri piani strategici e commerciali diretti contro Pechino.

 

L’eventuale clamoroso ritorno degli USA nel TPP, anche se tutt’altro che scontato vista l’evoluzione degli scenari internazionali nell’ultimo anno, rischia sul fronte domestico di erodere ancora di più la esile base di consenso dell’amministrazione Trump. I principali sindacati americani avevano ad esempio sostenuto le politiche commerciali protezioniste del presidente repubblicano, coerentemente con l’agenda nazionalista e volta a dividere i lavoratori che queste organizzazioni perseguono.

 

Un passo indietro in questo ambito aggraverebbe dunque le frustrazioni provocate dalla già approvata “riforma fiscale” a beneficio dei redditi più elevati e dal probabile imminente assalto a ciò che resta dei programmi sociali negli Stati Uniti, distruggendo definitivamente l’immagine, già di per sé assurda, di un presidente impegnato contro l’establishment e nella difesa della “working-class” americana.

 

Singolarmente, infine, il possibile abbraccio del TPP da parte di Trump potrebbe finire per allineare l’amministrazione repubblicana alla strategia commerciale di Obama. Sia pure con approcci differenti, l’obiettivo di entrambi consisteva e consiste nel contenere la Cina e dare la possibilità agli Stati Uniti di dettare le regole economiche e commerciali a livello globale.

 

In ultima analisi, il tentativo di Obama era in particolare quello di ostacolare il processo di trasformazione cinese in una potenza tecnologica in grado di competere con gli Stati Uniti, affiancando le iniziative in ambito commerciale, come il TPP, a quelle diplomatiche e militari.

 

Come appare sempre più chiaro, la guerra commerciale scatenata contro Pechino da parte dell’amministrazione Trump ha in fin dei conti questo stesso obiettivo. Ciò conferma come le tensioni provocate dall’involuzione protezionistica che sta caratterizzando il governo USA non dipendano tanto dall’impulsività o dall’attitudine tutta particolare dell’attuale presidente e del suo staff, quanto da dinamiche oggettive legate al declino della posizione internazionale del capitalismo americano.

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