Il prezzo del petrolio continua a correre e nei prossimi mesi potrebbe arrivare un nuovo allungo. La settimana scorsa le quotazioni hanno toccato il livello più alto degli ultimi quattro anni, con il Wti americano intorno ai 70 dollari al barile e il Brent europeo vicino a quota 75. Ma gli analisti sono sicuri: non è finita. Per diverse ragioni.

 

Innanzitutto, la svolta nella politica dei prezzi da parte dell’Arabia Saudita. Secondo fonti Opec citate dall’agenzia Reuters, il principale Paese esportatore di greggio punta a far salire il prezzo del petrolio prima a 80 e poi anche oltre i 100 dollari al barile. Uno scenario che non dispiace affatto alla Russia e per il quale sta lavorando involontariamente anche il Venezuela, dove la situazione politica precipita insieme alla produzione di greggio.

 

 

In passato proprio Riyad aveva lanciato la politica dei prezzi stracciati, principalmente con l’obiettivo di danneggiare la concorrenza (su tutti lo shale oil americano e il petrolio dell’Iran). Poi a fine 2016 arrivò l’inversione di rotta e dal gennaio 2017 entrò in vigore l’accordo fra Paesi Opec e non Opec per tagliare la produzione di 1,8 milioni di barili al giorno (all’epoca un barile valeva 55 dollari e un anno prima era sceso addirittura sotto quota 30). Una politica rialzista che ora, nonostante il rally delle quotazioni, non solo non sarà alleggerita, ma potrebbe essere ulteriormente rafforzata.

 

Le cause dietro la nuova aggressività dei sauditi sono almeno tre. In primo luogo, la necessità di sostenere il prezzo del petrolio in vista dell’Ipo di Saudi Aramco, la National Oil Company di cui il Regno punta a collocare in Borsa il 5% entro la fine del 2018. Poi l’Arabia ha interesse a mantenere alte le quotazioni del greggio per finanziare le riforme economiche volute dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Infine, aumentare le entrate legate all’oro nero permetterà a Riyad di sostenere più agevolmente la guerra in Yemen.

 

Proprio in Arabia Saudita, a Gedda, venerdì scorso è iniziato il vertice tra i Paesi Opec e non Opec per mettere a punto la strategia in vista dell’incontro in agenda per il 22 giugno a Vienna, dove si farà il punto sulle politiche di prezzo definite nell’ultimo accordo, in scadenza a dicembre di quest’anno. Stavolta però Arabia Saudita e Russia, a capo rispettivamente dei produttori Opec e non-Opec, puntano a sottoscrivere un'alleanza di lunga durata. L’idea è creare un’organizzazione stabile (Opec Plus) capace di controllare metà dell’offerta globale di petrolio.

 

«Stiamo lavorando per passare da un accordo annuale a uno che duri 10-20 anni – aveva detto Salman a fine marzo – Abbiamo già un'intesa di massima, ma non ancora sui dettagli». Gli ha fatto eco pochi giorni fa Alexander Novak, ministro dell’Energia russo: «Abbiamo creato basi solide per una cooperazione futura tra paesi Opec e non Opec che vada al di là della dichiarazione di cooperazione».

 

Questa prospettiva è ovviamente sgradita agli Stati Uniti, che rimarrebbero fuori dall’intesa. «Ci risiamo con l'Opec - ha tuonato su Twitter il presidente Donald Trump - Con quantità record di petrolio dappertutto, anche con le navi a pieno carico in mare, i prezzi del petrolio sono artificialmente molto alti. Non va bene e non sarà accettato».

 

Il numero uno del Casa Bianca finge di non sapere che il rialzo delle quotazioni non dipende solo da Arabia Saudita e Russia. Una spinta importante è arrivata proprio da Washington, che con la sua irruenza internazionale ha fatto impennare la tensione geopolitica nei confronti della Russia (con i bombardamenti in Siria) e dell’Iran (gli Usa decideranno a maggio se varare nuove sanzioni). Cioè il primo e il quarto produttore di petrolio al mondo.

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