Il Partito Democratico americano ha deciso qualche giorno fa di procedere con una drammatica accelerazione della caccia alle streghe in atto sulle molto presunte interferenze russe nel processo elettorale degli Stati Uniti. Tramite il suo organo direttivo, il Comitato Nazionale Democratico (CND), il partito oggi all’opposizione negli USA ha intentato una causa legale contro tutti gli attori che ritiene responsabili della sconfitta di Hillary Clinton nelle presidenziali del 2016.

 

 

Le parti chiamate in causa di fronte al tribunale distrettuale di Manhattan sono sostanzialmente accusate di cospirazione e tradimento. A essere coinvolti nel procedimento, nel quale si chiede un risarcimento di svariati milioni di dollari, sono il governo russo, i responsabili della campagna elettorale di Donald Trump, alcuni stretti collaboratori del presidente repubblicano, WikiLeaks e il suo fondatore, Julian Assange.

 

L’impronta maccartista della causa appare fin troppo evidente. I documenti presentati dal CND non contengono alcuna prova delle accuse sollevate e ricalcano in pratica la versione ufficiale del “Russiagate”, ugualmente mai dimostrata da fatti concreti, offerta dall’apparato di polizia e dell’intelligence americano, diligentemente propagandata dai media ufficiali.

 

Le parti sotto accusa avrebbero complottato per mettere in cattiva luce la candidata democratica alla Casa Bianca, principalmente hackerando i sistemi informatici del CND e divulgando, tramite WikiLeaks, documenti ed e-mail riservate sugli sforzi del partito per favorire la stessa Hillary nelle primarie contro Bernie Sanders e sui legami dell’ex segretario di Stato di Obama con le grandi banche di Wall Street.

 

A favore dell’accusa ci sarebbero anche gli elementi emersi dalla campagna mediatica tuttora in corso contro Trump e fondata su ripetute “rivelazioni” che dovrebbero dimostrare i legami tra l’amministrazione repubblicana e il governo di Putin.

 

A pochi mesi dal voto di metà mandato, la denuncia del CND serve in primo luogo a sviare l’attenzione degli elettori americani sia dal comportamento fraudolento dei vertici del partito nel corso delle primarie del 2016 sia dalla sua trasformazione in uno strumento dei grandi interessi economici e finanziari americani.

Al contrario di quanto sostenuto dai democratici e dai principali media americani, la ragione principale della sconfitta di Hillary Clinton è stata di gran lunga la sua identificazione con le élites economiche del paese e, in generale, le sue inclinazioni reazionarie e guerrafondaie, evidenti da una lunga carriera politica al servizio dei poteri forti sia dentro che fuori l’apparato dello stato americano.

 

Il risvolto probabilmente più inquietante della causa legale intentata dal CND si percepisce dal linguaggio che, come già anticipato, ricorda le persecuzioni maccartiste del secondo dopoguerra. Sia i documenti presentati al tribunale di New York sia la dichiarazione del presidente del Partito Democratico, Tom Perez, che ha accompagnato la notizia della causa parlano apertamente di “tradimento” e “collusioni” con una potenza straniera – ieri l’Unione Sovietica e oggi la Russia di Putin – per imporre alla Casa Bianca uno dei due candidati.

 

La decisione del CND conferma così la strada scelta da questo partito dopo la clamorosa sconfitta elettorale del 2016 e il rapido manifestarsi delle tendenze anti-democratiche e di estrema destra dell’amministrazione Trump. Invece di assecondare e promuovere una campagna popolare progressista contro il presidente, i vertici democratici hanno accelerato la loro identificazione con l’apparato militare e dell’intelligence USA, in modo da dirottare la crescente repulsione nei confronti della Casa Bianca verso una campagna ultra-reazionaria all’insegna del patriottismo e del militarismo più estremo.

 

D’altra parte, la caccia alle streghe del “Russiagate” è intimamente connessa con la promozione di determinati interessi strategici della sezione della classe dirigente americana a cui il Partito Democratico fa riferimento. Di fronte ai tentennamenti di Trump, essi hanno appunto a che fare con la necessità di tenere alta la pressione sulla Russia e, di conseguenza, di intensificare l’impegno americano su vari fronti, a cominciare da quello della Siria e del rafforzamento della presenza NATO in Europa orientale.

 

Il procedimento legale non nomina direttamente il presidente Trump, ma coinvolge svariati uomini a lui molto vicini che in un modo o nell’altro sono implicati nelle trame dell’indagine in corso sul “Russiagate” sotto la direzione dell’ex direttore dell’FBI, Robert Mueller. Tra di essi spiccano il figlio del presidente, Donald Trump Jr., il genero e consigliere, Jared Kushner, e l’ex responsabile della campagna per la Casa Bianca, Paul Manafort.

 

Nella battaglia condotta contro un presidente la cui posizione appare sempre più precaria, perciò, la recente mossa del Partito Democratico è un ulteriore elemento di pressione e, potenzialmente, un’altra arma in grado di mettere fine anticipatamente al suo mandato.

 

L’altra questione cruciale è l’inclusione di Assange e WikiLeaks tra i responsabili del complotto. In definitiva, entrambi sono presi di mira dai leader democratici americani per avere svolto un ruolo di autentico giornalismo. La trasformazione di questa funzione, da tempo abbandonata dai media “mainstream” controllati da grandi interessi economici, in attività di “spionaggio” o “tradimento” ha ovviamente implicazioni difficili da sopravvalutare in prospettiva futura.

 

WikiLeaks, com’è noto, ha soltanto reso disponibili liberamente al pubblico i documenti sul CND e Hillary. Per quanto riguarda le fonti del materiale, oltre a essere stata messa in discussione da molti la provenienza russa, WikiLeaks ha sempre sostenuto di non esserne a conoscenza, visto che questa organizzazione implementa misure che garantiscono il totale anonimato e la sicurezza dei cosiddetti “whistleblowers”. Sul contenuto di questo materiale compromettente, il Partito Democratico non ha comunque mai commentato, sia perché corrispondente a verità sia per evitare un dibattito pubblico sulle questioni da esso sollevate.

 

Il nuovo capitolo della guerra a WikiLeaks e al suo fondatore dimostra così ancora una volta un altro aspetto anti-democratico del “Russiagate”, cioè l’intrecciarsi di questa campagna con i piani per intimidire e mettere a tacere le voci giornalistiche indipendenti e chiunque intenda contestare le politiche domestiche e internazionali del governo americano.

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