Il quasi 93enne ex uomo forte della Malaysia, Mahathir Mohamad, mercoledì ha sconvolto in maniera clamorosa gli equilibri politici nel paese del sud-est asiatico, guidando verso un inaspettato trionfo elettorale una precaria alleanza di opposizione che ha messo fine a oltre sei decenni di dominio ininterrotto del partito etnico malese UMNO (“Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti”) del premier uscente Najib Razak.

 

 

Il vero e proprio terremoto politico che ha scosso la Malaysia è arrivato nonostante il governo e la coalizione che lo appoggia – BN (“Barisan Nasional” o “Fronte Nazionale”) – avessero messo in atto una serie di provvedimenti per garantirsi la vittoria alle urne. In particolare, nelle settimane precedenti il voto era stata adottata una legge fortemente anti-democratica per reprimere qualsiasi voce critica contro il governo con la giustificazione di combattere le cosiddette “fake news”.

 

Lo stesso Mahathir era finito a un certo punto sotto accusa dopo che aveva puntato il dito contro il governo per avergli quasi impedito di registrarsi come candidato alle elezioni. Inoltre, Najib aveva promosso una manipolazione dei distretti elettorali malesi per favorire il proprio partito. Alcuni collegi erano stati ad esempio ingranditi per includere il numero maggiore di votanti tendenzialmente orientati verso l’opposizione, così da diminuirne l’impatto sui risultati complessivi di un’elezione tenuta col metodo maggioritario.

 

Già nel 2013 manovre simili promosse dal governo avevano consentito alla coalizione al potere di ottenere il 60% dei seggi nonostante il 47% dei consensi complessivi, cioè meno di quelli conquistati dall’opposizione, allora raccolta attorno all’Alleanza Popolare (PA). Quel risultato era stato fino ad allora il peggiore della storia del BN e negli anni successivi Najib e il suo governo avrebbero visto crollare ancora di più i loro livelli di gradimento a causa di svariati fattori.

 

Il primo ministro è da tempo coinvolto in uno scandalo di corruzione legato alla gestione del fondo sovrano malese “1MDB”, da cui sarebbero stati sottratti centinaia di milioni di dollari, molti dei quali finiti su un conto interamente a disposizione dello stesso Najib. Sulla vicenda stanno indagando le magistrature di vari paesi, inclusa quella americana e Najib, la cui posizione all’interno del suo partito era già precaria prima del voto di mercoledì, potrebbe ritrovarsi presto in seri guai giudiziari.

 

Il premier aveva cercato in ogni modo di liquidare lo scandalo, soprattutto rimuovendo dai loro incarichi coloro che avevano sollevato dubbi sulla sua condotta e nominando un procuratore generale che si era adoperato per scagionarlo. Il persistere del caso all’estero aveva però contribuito alla crescente impopolarità di Najib, assieme ad altre questioni come l’introduzione nel 2015 di un’odiata tassa del 6% su beni e servizi (GST). Sulla promessa dell’abolizione di quest’ultima, infatti, Mahathir e i suoi alleati hanno puntato molto durante la campagna elettorale.

 

Lo storico successo dell’opposizione malese è stato possibile principalmente grazie a due elementi. Il primo è appunto il logoramento a cui è stato esposto l’UMNO, a causa sia della gestione clientelare e corrotta del potere sia dell’accentuarsi della deriva autoritaria in parallelo alla perdita di consenso. L’altro aspetto decisivo è stato il reclutamento da parte dell’opposizione del 92enne ex primo ministro Mahathir, in carica sotto le insegne dell’UMNO dal 1981 al 2003.

 

Il potere di questo partito si è basato fin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1957 sulla difesa degli interessi delle élites di etnia malese, con limitate concessioni a una parte di quelle cinesi e indiane, entrambe minoritarie nel paese. Il rilancio dell’anziano leader ha permesso così all’opposizione di intercettare un numero decisivo di elettori di etnia malese, soprattutto nelle aree rurali dove è più forte il malcontento verso il governo.

 

A lanciare Najib ai vertici del partito e alla guida della Malaysia era stato di fatto Mahathir, ma le loro strade hanno finito per dividersi ufficialmente a causa delle vicende legali in cui l’attuale primo ministro è stato coinvolto. In realtà, gli interessi della classe dirigente a cui Mahathir continua a fare riferimento, riconducibili agli ambienti del capitalismo clientelare malese legato all’apparato dello stato, si sono con ogni probabilità risentiti delle iniziative di Najib per la liberalizzazione dell’economia.

 

Per la stessa ragione, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo, Mahathir aveva rotto anche con l’attuale leader carismatico dell’opposizione, Anwar Ibrahim, allora ministro delle Finanze dell’UMNO e convinto della necessità di rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale (FMI) per risollevare la Malaysia dalla crisi economica del 1997-98.

 

Anwar è tuttora in carcere a causa di una condanna tutta politica per sodomia che la giustizia malese gli ha inflitto su pressioni di Najib. Giù oltre un decennio fa Anwar era finito in carcere con la stessa motivazione ma su ordine di Mahathir. Anwar sarà scarcerato tra meno di un mese e il suo ex nemico aveva promesso in campagna elettorale che, in caso di vittoria, gli avrebbe concesso la grazia e in seguito ceduto la carica di primo ministro.

 

La coalizione uscita vincitrice dal voto di mercoledì, “Pakatan Harapan” (“Alleanza della Speranza”), è composta dal partito Keadilan su base etnica malese di Anwar, da quello di Mahathir (PPBM), dal cinese DAP (“Partito di Azione Democratica”) e dagli scissionisti islamisti usciti dal partito PAS dopo che quest’ultimo nel 2015 aveva a sua volta abbandonato l’Alleanza Popolare, successivamente dissoltasi.

 

Secondo i dati ufficiali, l’opposizione ha ottenuto 112 seggi sui 222 del parlamento malese, sufficienti per governare in autonomia, anche se qualche commentatore inizialmente non aveva escluso possibili intoppi nel conferimento dell’incarico di primo ministro a Mahathir da parte del sovrano malese, visto che il PH non è registrato ufficialmente come un unico partito.

 

Najib ha fatto riferimento a questo dettaglio nel suo intervento seguito alla diffusione dei risultati, ma ha comunque riconosciuto la sconfitta. Mahathir, da parte sua, ha invece chiesto la formazione di un governo sotto la sua guida in tempi rapidissimi, verosimilmente per evitare possibili manovre da parte di un apparato di potere sotto il controllo dell’UMNO. Dopo alcune ore di incertezza, nella serata di giovedì Mahathir è stato alla fine nominato primo ministro e si è insediato ufficialmente davanti al sovrano della Malaysia.

 

Secondo la testata Asia Sentinel, da Kuala Lumpur sarebbero giunte voci su un tentativo da parte di Najib e dei leader del suo partito di mobilitare la polizia e le forze armate malesi per dichiarare lo stato di emergenza e, di fatto, annullare l’esito del voto. Profonde divisioni all’interno delle istituzioni del paese, nonché senza dubbio il discredito crescente di Najib, hanno tuttavia finito per far saltare il possibile colpo di mano.

 

La natura eterogenea della coalizione che ha vinto le elezioni rende comunque incerto il futuro politico della Malaysia, per non parlare della resistenza al cambiamento nelle strutture tradizionali di potere. I mercati hanno perciò risposto con preoccupazione alla sconfitta del “Fronte Nazionale” di Najib, anche se alcuni economisti hanno previsto un’inversione di tendenza a breve, visto che Mahathir dovrebbe dare un’impronta “neo-liberista” all’agenda economica del prossimo governo.

 

Sul futuro malese peserà anche la collocazione strategica del paese del sud-est asiatico. La Malaysia si è mossa finora con una certa cautela nell’ambito della rivalità tra Stati Uniti e Cina. Najib aveva ostentato i solidi legami con Washington nel corso di una vista alla Casa Bianca lo scorso settembre, ma il suo governo si era anche aperto alle iniziative cinesi nel quadro del piano infrastrutturale e strategico di Pechino noto come “Belt and Road Initiative” (BRI).

 

In campagna elettorale, Mahathir aveva promesso una “revisione” di tutti i progetti in Malaysia promossi dalla Cina, ma nel suo primo discorso pubblico dopo il voto ha affermato di appoggiare la BRI. Anwar e il suo partito sono a loro volta orientati verso l’Occidente e la questione dell’approccio ai piani cinesi potrebbe rappresentare un ulteriore motivo di scontro interno alla formazione che ha appena ottenuto la maggioranza, alla luce soprattutto di un possibile aggravarsi nel prossimo futuro del confronto tra le prime due potenze economiche del pianeta.

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