Nelle settimane seguite allo storico incontro del 12 giugno a Singapore tra il presidente americano Trump e il leader nordcoreano, Kim Jong-un, l’amministrazione repubblicana è stata esposta a critiche e crescenti pressioni sul fronte interno per avere fatto eccessive concessioni o promesse al regime di Pyongyang.

 

Questi attacchi da destra contro la Casa Bianca si sono intensificati in concomitanza con l’avvio dei primi negoziati tra USA e Corea del Nord, previsti dal vertice di Singapore. Nei giorni scorsi, tra l’altro, alcune rivelazioni giornalistiche o presunte tali hanno messo in dubbio la buona fede dell’impegno di Kim a disfarsi del suo arsenale nucleare nel quadro di un accordo di ampio respiro con il governo di Washington.

 

 

Lo stesso Trump nella sua apparente imprevedibilità ha fatto intravedere l’esistenza di forze contrastanti in relazione all’atteggiamento da tenere con Pyongyang, quando in un’intervista nel fine settimana a Fox non ha escluso che l’accordo sulla denuclearizzazione della Nord Corea potrebbe alla fine “non funzionare”.

Le pressioni sull’amministrazione Trump provengono in primo luogo da determinate sezioni dell’apparato dell’intelligence statunitense, in parte legate al Partito Democratico, le quali hanno favorito almeno un paio di imbeccate nei giorni scorsi ad alcuni media già in prima linea nella campagna del “Russiagate”.

 

Il Washington Post ha ad esempio pubblicato una storia basata interamente sulla testimonianza di fonti governative anonime per spiegare che il regime di Kim starebbe cercando di “ingannare” gli Stati Uniti sul numero di testate nucleare in proprio possesso, ma anche sull’esistenza di strutture clandestine per l’arricchimento dell’uranio e per produrre “materiale fissile” da utilizzare su questi stessi ordigni.

 

Il Post sostiene che i servizi segreti americani sono a conoscenza di questi fatti, che dimostrerebbero la vera intenzione della Corea del Nord di non volersi liberare del proprio programma nucleare, “da almeno un anno”. Se così fosse, il giornale non sembra essere interessato a indagare le ragioni per cui l’intelligence USA non avrebbe messo in guardia l’amministrazione Trump e i suoi negoziatori sulle intenzioni ingannevoli di Kim prima del vertice di Singapore.

 

L’articolo del Washington Post era seguito a un’indagine della NBC a sua volta scaturita da immagini satellitari pubblicate dal sito web 38 North, gestito dalla Johns Hopkins University e dedicato alle questioni coreane, che documenterebbero lavori di consolidamento dell’impianto di ricerca nucleare di Yongbyon.

 

Gli stessi analisti di 38 North avvertono che i lavori presumibilmente in corso non sono necessariamente da collegare al nascente negoziato con Washington, tanto più che nulla di concreto è stato deciso a Singapore, né Kim si è impegnato o gli è stato chiesto di impegnarsi in maniera formale a prendere provvedimenti per la denuclearizzazione del suo paese.

 

Le operazioni in corso a Yongbyon potrebbero perciò far parte di progetti di costruzione già approvati e confermati in attesa di nuovi sviluppi. Tutto ciò non ha però impedito alla NBC e ad altri commentatori americani di trarre la conclusione che Kim non intende realmente rinunciare alle proprie armi nucleari.

 

Una “rivelazione” simile del Wall Street Journal aveva anche descritto lavori in corso da qualche tempo per l’espansione di un impianto per la produzione di missili balistici. Anche questa notizia era basata sull’esame di immagini satellitari, acquisite da un laboratorio di San Francisco.

 

La contemporaneità dell’uscita di analisi e notizie di questo genere indica di per sé la chiara intenzione di creare un clima di scetticismo attorno al nascente processo di distensione tra USA e Corea del Nord. La malafede dei media e degli ambienti governativi che operano in questo senso è evidente dal fatto che, se anche le attività nordcoreane descritte dovessero essere reali, ciò non sarebbe in violazione di nessun impegno, poiché Kim e la delegazione di Pyongyang non hanno appunto fatto promesse specifiche nel summit di Singapore.

 

La condanna delle presunte manovre del regime di Kim, anche nel caso fossero considerate soltanto inopportune e poco propizie alla creazione di un clima di fiducia, è poi quanto meno ipocrita. Basti pensare che la discussione sulla denuclearizzazione della Corea del Nord giunge a poche settimane dal boicottaggio unilaterale dell’accordo sul nucleare iraniano da parte del governo americano, nonostante l’adesione totale di Teheran alle prescrizioni in esso contenute e il parere fermamente contrario degli altri paesi firmatari.

 

La vera incognita sulla strada verso la pace nella penisola di Corea è perciò se mai la disponibilità degli Stati Uniti a mantenere eventuali impegni. Anche solo limitandosi ai precedenti sull’asse Washington-Pyongyang, gli accordi siglati dalle amministrazioni Clinton e Bush rispettivamente nel 1994 e nel 2007, a differenza della versione ufficiale proposta dai media “mainstream”, vennero fatti naufragare proprio dal mancato mantenimento degli impegni presi dagli USA.

 

Oltre alle pressioni esterne, sul futuro del processo innescato dall’incontro di Singapore pesano anche l’attitudine e le reali intenzioni dell’amministrazione Trump. L’obiettivo resta quello di inserire un eventuale accordo di pace con il regime di Kim nei piani strategici di Washington diretti al contenimento della Cina, fino a oggi principale se non unico alleato di Pyongyang.

 

Se, in altre parole, la Corea del Nord non fosse disponibile a operare una svolta strategica che preveda, almeno nel medio o lungo periodo, il passaggio nell’orbita statunitense, da parte americana si tornerebbe con ogni probabilità rapidamente ai toni di minaccia e all’escalation militare.

 

Per il momento, l’intenzione sembra essere quella di esplorare la possibilità del dialogo, come confermano anche le recenti dichiarazioni relativamente ottimistiche del consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, il super-falco John Bolton. L’ex ambasciatore di Bush jr. alle Nazioni Unite solo qualche mese fa auspicava la distruzione preventiva del regime di Kim, mentre nei giorni scorsi ha assicurato che lo smantellamento dell’arsenale nucleare nordcoreano potrebbe avvenire addirittura “entro un anno”.

 

Se le parole di Bolton, così come quelle degli altri membri dell’amministrazione Trump, devono essere prese con estrema cautela, la macchina della diplomazia si sta comunque mettendo in moto. Nella giornata di domenica, l’ambasciatore USA nelle Filippine ed ex negoziatore sul nucleare nordcoreano, Sung Kim, ha incontrato al confine tra le due coree emissari del regime di Pyongyang.

 

Lo stesso Bolton ha infine confermato che il segretario di Stato, Mike Pompeo, a breve discuterà in prima persona con Kim e i suoi consiglieri i prossimi passi del processo diplomatico. Il Financial Times aveva in precedenza sostenuto che Pompeo si sarebbe recato in visita in Corea del Nord già questa settimana, anche se, per ora, il dipartimento di Stato non ha confermato il programma delle prossime trasferte del numero uno della diplomazia americana.

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