La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è entrata nei giorni scorsi in una nuova e pericolosa fase che, in assenza di un accordo bilaterale difficile da prevedere, minaccia di sfociare in un’escalation di ritorsioni con conseguenze rovinose sull’economia e la stabilità internazionale. L’aggravamento dello scontro in atto è stato solo in lievissima parte mitigato a partire dalla giornata di mercoledì con un appello del ministero del Commercio cinese al governo americano per riaprire i negoziati, chiusi senza alcun risultato concreto lo scorso mese di giugno. Fonti interne alla Casa Bianca hanno a loro volta fatto sapere in forma ufficiosa che il presidente Trump sarebbe in teoria disponibile a tornare al tavolo delle trattative.

 

 

Queste rassicurazioni non dicono però nulla sugli ostacoli insormontabili che impediscono una risoluzione pacifica della questione. Esse riflettono al massimo le ansie per l’intensificarsi del conflitto sul fronte commerciale sia da parte cinese sia tra molti all’interno della classe dirigente degli Stati Uniti, tra cui nella stessa amministrazione Trump.

 

Il nuovo round dell’offensiva USA contro la Cina sembra ad ogni modo avere una portata esplosiva e, oltretutto, promette di non essere l’ultimo. L’ufficio responsabile per le questioni commerciali presso la Casa Bianca ha cioè avviato una procedura che entro la fine di agosto potrebbe portare all’applicazione di nuovi dazi del 10% su beni di importazione cinese per un valore di 200 miliardi di dollari.

 

La decisione era già stata ipotizzata alcune settimane fa, ma Trump ne ha dato il via libera dopo che Pechino ha risposto in ugual misura all’entrata in vigore venerdì scorso negli USA di una prima serie di balzelli doganali gravanti sulle merci cinesi per un totale di 34 miliardi di dollari.

 

Washington, in sostanza, minaccia ritorsioni sempre più pesanti in risposta a provvedimenti che, a loro volta, sono stati decisi dalla Cina a seguito di misure prese unilateralmente e, con ogni probabilità, in violazione delle norme del WTO (Organizzazione del Commercio) dallo stesso governo americano. Ogni iniziativa della Casa Bianca è poi accompagnata da dichiarazioni intimidatorie che invitano Pechino non solo ad accettare i diktat degli USA in ambito commerciale, ma anche ad astenersi da qualsiasi ritorsione.

 

Con questa logica, Trump ha già prospettato una spirale di nuovi dazi che potrebbero alla fine gravare su tutto l’export cinese destinato al mercato americano, pari a una cifra vicina ai 500 miliardi di dollari l’anno. Pechino continua a promettere di voler rispondere colpo su colpo, ma la quantità di merci importate dagli Stati Uniti è nettamente inferiore a quelle esportate.

 

Vi sono tuttavia svariati ambiti nei quali la Cina è in grado di infliggere seri danni all’economia americana: dalle restrizioni agli investimenti o alle attività delle aziende USA attive entro i propri confini alla vendita di quote che detiene del debito americano.

 

Nell’osservare con maggiore attenzione la vicenda, emerge in maniera abbastanza chiara la disponibilità cinese a trovare una soluzione negoziata alla guerra commerciale e, sul fronte opposto, la persistente intransigenza americana e la volontà di respingere anche le concessioni finora proposte da Pechino.

 

Questa realtà fa pensare che lo squilibrio della bilancia commerciale tra le due potenze sia solo uno degli scrupoli dell’amministrazione Trump e nemmeno quello principale. Tant’è vero che, quando le autorità cinesi qualche settimana fa proposero una prima riduzione del disavanzo americano, impegnandosi ad aumentare le importazioni per circa 100 miliardi l’anno, il governo USA decise di respingere l’offerta.

 

Inoltre, Trump e il suo entourage sembrano essere insensibili agli appelli di buona parte del business americano a desistere dall’applicazione di nuovi dazi anche nei confronti della Cina, perché le politiche protezionistiche in un’economia globalizzata finiscono per avere effetti negativi in pratica su tutte le aziende coinvolte nei processi produttivi e commerciali su scala internazionale.

 

La determinazione con cui l’amministrazione Trump sta perseguendo un’agenda commerciale coerente con i principi della cosiddetta “America first” è spiegata allora dal contenuto di una dichiarazione che a inizio maggio aveva preceduto il primo round di colloqui in questo ambito con il governo cinese. La delegazione americana aveva presentato una serie di richieste, in larga misura inaccettabili per Pechino, tra cui una – cruciale – che prevedeva in sostanza l’abbandono da parte cinese del piano di sviluppo industriale e tecnologico battezzato “Made in China 2025”.

 

Questo progetto intende fare nei prossimi anni della Cina una potenza tecnologica di primissimo piano e, dunque, quanto meno al pari degli Stati Uniti. Per il governo di Washington, una simile prospettiva comporta una serissima minaccia alla propria supremazia soprattutto militare, nell’ambito cioè che garantisce ancora agli USA di potere imporre i propri interessi a livello globale, malgrado il declinante peso economico e le tendenze multipolari in atto.

 

La pretesa di arrestare il processo di sviluppo di un determinato paese per difendere i propri interessi è evidentemente assurda, oltre che, nel caso di una potenza come la Cina, sostanzialmente illusoria. Questo atteggiamento non è tuttavia un’esclusiva di un presidente e una cerchia di consiglieri ultra-nazionalisti che agirebbero in maniera impulsiva.

 

Se, infatti, le critiche all’imposizione indiscriminata di dazi provengono da più parti negli ambienti politici e del business USA, questi ultimi sono invece pressoché concordi con la Casa Bianca sulla necessità di ostacolare la crescita cinese. Anzi, in molti fanno notare come le tariffe doganali già applicate anche ai paesi alleati di Washington impediscono la formazione di un fronte compatto per contrastare le pratiche scorrette della Cina.

 

Addirittura, svariati segnali indicano come sia stia consolidando la collaborazione economica e commerciale tra la Cina e gli alleati europei degli USA, a cominciare dalla Germania, principale bersaglio degli attacchi di Trump. Proprio alla vigilia dell’annuncio della prossima imposizione di dazi su altri 200 miliardi di dollari di merci cinesi, la cancelliera Merkel e il primo ministro cinese, Li Keqiang, hanno sottoscritto accordi a Berlino per svariati miliardi di euro. Entrambi i leader hanno poi messo in guardia dai pericoli della deriva protezionista di Washington, rilanciando l’impegno per un sistema basato sulla libera circolazione delle merci.

 

Il governo americano cerca infine di presentare le azioni di Pechino come “furti” di tecnologia e proprietà intellettuale oppure denuncia il presunto obbligo imposto alle aziende straniere operanti in Cina di condividere con soggetti locali i propri brevetti o segreti industriali. Che ciò accada su larga scala è tutto da verificare, ma, se anche così fosse, sono in molti a far notare che la stessa ascesa degli Stati Uniti fino a diventare la prima potenza mondiale, o i progressi tecnologici di altri paesi come ad esempio il Giappone, si è basata in passato su una condotta molto simile o anche più scorretta di quella che Washington attribuisce oggi ferocemente al governo e alle compagnie cinesi.

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