Qualche giorno fa, le forze armate israeliane hanno di fatto operato ancora una volta come contraerea a sostegno dell’opposizione fondamentalista in Siria. Due missili Patriot di produzione americana hanno abbattuto un aereo da guerra siriano in missione contro le residue forze dello Stato Islamico (ISIS) tra le province meridionali di Daraa e Quneitra, nei pressi delle alture del Golan.

 

Il governo e i vertici militari di Israele hanno dato un resoconto a dir poco tendenzioso dell’accaduto, nel tentativo di attribuirne la responsabilità al regime di Damasco. Secondo Tel Aviv, il Sukhoi siriano sarebbe entrato per un paio di chilometri nello spazio aereo israeliano, così da non lasciare alternativa all’abbattimento immediato.

 

 

L’iniziativa di Israele è in primo luogo una provocazione per istigare una ritorsione da parte della Siria o delle forze iraniane presenti legittimamente in questo paese, in modo da creare un casus belli che trascini in un conflitto più ampio gli Stati Uniti e la stessa Repubblica Islamica.

 

Inoltre, quello che Israele definisce con la consueta arroganza come proprio spazio aereo è in realtà la zona cuscinetto del Golan, monitorata dall’ONU, che separa l’area occupata illegalmente da Tel Aviv nel 1967 e annessa unilateralmente nel 1981. Anche con questo distinguo, non ci sono prove che il jet abbattuto sia uscito dallo spazio aereo siriano così come riconosciuto da Israele.

 

Il velivolo è comunque precipitato in Siria e almeno uno dei due piloti sarebbe rimasto ucciso. Il suo obiettivo era il villaggio di Saida, nel governatorato di Quneitra, a breve distanza dal Golan occupato. Questa porzione di territorio siriano è controllata dall’ISIS, contro cui l’esercito di Damasco sta sferrando un attacco decisivo da alcune settimane. In concomitanza con queste operazioni, Israele ha condotto svariate incursioni oltre il confine siriano, prendendo di mira quasi sempre presunti obiettivi iraniani.

 

Per stessa ammissione del suo governo e delle forze armate, Israele preferisce avere al di là dei propri confini gruppi jihadisti, come l’ISIS, piuttosto che le forze di Damasco o, peggio ancora, di Teheran o milizie di Hezbollah. Per questa ragione, pur chiudendo rigorosamente le porte a tutti i profughi siriani in questi anni di guerra, Israele ha spesso fornito assistenza di vario genere, inclusa quella di carattere sanitario, ai guerriglieri fondamentalisti che combattono contro Assad.

 

L’abbattimento dell’aereo da guerra siriano ha seguito di un solo giorno il vertice, tenuto a Gerusalemme, tra il ministro degli Esteri e il capo di Stato Maggiore russi, rispettivamente Sergey Lavrov e il generale Valery Gerasimov, e il primo ministro israeliano Netanyahu. In precedenza, alla vigilia del faccia a faccia tra Putin e Trump a Helsinki del 16 luglio, lo stesso Netanyahu aveva avuto un colloquio con il numero uno del Cremlino a Mosca.

 

In entrambi i vertici, la crisi siriana ha occupato buona parte dell’agenda e, soprattutto dopo il secondo, in Israele sono tornate a circolare le voci di un’intesa tra Tel Aviv e Mosca sulla presenza di forze iraniane in Siria. Il governo Netanyahu ha alimentato le voci di una proposta fatta da Lavrov per tenere milizie e personale iraniano ad almeno un centinaio di chilometri dal confine israeliano.

 

Secondo alcuni commentatori indipendenti, la proposta avrebbe poco senso né sarebbe effettivamente applicabile. Ciononostante, i media hanno scritto che Israele l’avrebbe respinta, insistendo probabilmente per un allontanamento tout court delle forze iraniane dalla Siria. Il governo russo ha smentito questa versione, mentre ha ribadito l’impegno per la creazione di una zona di “de-escalation” del conflitto nel sud del paese e il ritiro di qualsiasi gruppo armato “non siriano”.

 

L’intenzione di Netanyahu è quella di introdurre nel dibattito sugli scenari nella Siria sud-occidentale una questione cruciale per Israele, cioè appunto la fine della presenza iraniana a fianco del regime di Assad. Simili tentativi erano stati fatti da Tel Aviv lo scorso autunno e, ancora, nel mese di maggio di quest’anno, quando la stampa internazionale, su imbeccata israeliana, aveva dato praticamente per certa l’accettazione da parte russa dell’allontanamento delle milizie iraniane dalla Siria.

 

Da parte russa è evidente la disponibilità finora a tollerare le sortite israeliane in Siria, ma il comportamento di Mosca, oltre a rivelare i tradizionali buoni rapporti con Tel Aviv, sembra rappresentare l’accettazione di iniziative sporadiche e, tutto sommato, ininfluenti nel quadro generale, in modo da far digerire a Netanyahu la sconfitta dell’opposizione ad Assad e la vittoria di quest’ultimo nel conflitto in corso.

 

Nel complesso, l’atteggiamento di Israele rivela a sua volta una certa disperazione nel constatare questa realtà dei fatti. Simili frustrazioni sono evidenti anche dalla natura totalmente irrazionale di una serie di richieste aggiuntive, in gran parte sempre relative alla limitazione del ruolo dell’Iran in Siria, che Netanyahu avrebbe sottoposto a Lavrov nel corso del recente meeting di Gerusalemme.

 

Oggi in Siria, in ogni caso, la presenza iraniana risulta ormai fortemente ridotta e le forze governative, se mai con il contributo della Russia, hanno ripreso il controllo di una porzione consistente del proprio territorio. Tutte le previsioni indicano una più o meno rapida sconfitta definitiva dei “ribelli” nel sud-ovest del paese, dopo di ché l’attenzione di Assad dovrebbe spostarsi a nord, nel governatorato di Idlib, dove sono presenti alcune migliaia di guerriglieri affiliati a vari gruppi armati intenti a farsi la guerra l’un l’altro.

 

Le prospettive per Israele appaiono dunque cupe in Siria e, per alcuni, il risultato massimo da raggiungere potrebbe essere il sostanziale ritorno allo status quo precedente l’esplosione del conflitto nei rapporti con Damasco, come peraltro Netanyahu sembra talvolta riconoscere.

 

La principale incognita in vista di una soluzione militare definitiva della guerra in Siria rimane con ogni probabilità la posizione degli Stati Uniti, i quali conservano una presenza illegale di almeno duemila uomini nel paese mediorientale. Gli ambienti militari USA insistano quanto meno per mantenere il livello attuale di impegno nel paese. Tuttavia, ci sono altri fattori che suggeriscono un esito favorevole ad Assad e alla Russia.

 

Trump ha infatti poco appetito per la guerra in Siria. Inoltre, il complicato dialogo con Mosca potrebbe includere un disimpegno degli Stati Uniti dalla Siria, soprattutto considerando che la crescente offensiva del regime comporterà necessariamente un aumento del contingente militare americano e, di conseguenza, un maggiore coinvolgimento nel conflitto che a Washington sono ormai in pochi a volere al di fuori della cerchia dei più irriducibili falchi “neo-con”.

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