Il primo importante discorso pubblico del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton, ha rappresentato questa settimana un messaggio chiarissimo per tutto il mondo circa le intenzioni degli Stati Uniti di mettersi anche formalmente al di sopra del diritto internazionale nel perseguimento dei propri interessi strategici, ovunque essi siano in gioco.

 

L’obiettivo principale dell’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite è stata la Corte Penale Internazionale (ICC), contro la quale ha pronunciato parole estremamente pesanti, tanto da far pensare a quest’ultima più come a un’organizzazione terroristica o uno stato nemico che un’istituzione ratificata da 123 paesi sovrani.

 

Bolton ha auspicato la “morte” della Corte, assicurando che, con essa, il suo paese “non coopererà”, né le “fornirà assistenza” o, tantomeno, ne entrerà a far parte. La vera escalation contro l’ICC è emersa poi con le aperte minacce a quei giudici che dovessero avere il coraggio di aprire procedimenti per crimini di guerra contro cittadini americani.

 

In questo caso, Washington adotterebbe sanzioni punitive, come il divieto di ingresso nel paese, il congelamento di eventuali beni in territorio americano e, addirittura, una incriminazione secondo la legge USA. A finire dietro le sbarre potrebbero essere cioè i giudici che indagano sugli svariati crimini commessi da leader politici e militari americani nel mondo.

 

Ben sapendo che la posizione americana è condivisa solo da una minoranza di paesi, Bolton ha anche annunciato pressioni, per non dire ricatti, su quelli che riconoscono la giurisdizione dell’ICC, così da negoziare trattati bilaterali che proibiscano la consegna di cittadini USA alla Corte con sede a L’Aia, in Olanda.

Sanzioni “secondarie” potrebbero inoltre arrivare per quei paesi che intendono collaborare con l’ICC. In perfetto stile mafioso, Washington “prenderà nota” di simili comportamenti e i responsabili potrebbero veder sparire eventuali aiuti economici americani o di organismi internazionali sui quali gli USA hanno il controllo.

 

Bolton ha promesso infine un’iniziativa presso le Nazioni Unite per impedire del tutto alla Corte Penale Internazionale di indagare e incriminare i cittadini dei paesi che non riconoscono questo tribunale. Secondo lo statuto dell’ICC, oggi questa possibilità esiste quando l’incriminazione è proposta dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

 

Visti i precedenti del super-falco John Bolton, è stato quasi inevitabile che l’amministrazione Trump lo abbia scelto per condurre un attacco senza precedenti nei confronti della Corte de L’Aia. Da sotto-segretario di Stato e ambasciatore ONU durante l’amministrazione Bush jr., Bolton era stato uno dei “neo-con” più convinti della dannosità dell’ICC per gli Stati Uniti.

 

Nata con il cosiddetto Statuto di Roma, la Corte ha iniziato a operare nel 2002, ma la sua legittimità venne subito respinta dal governo americano. Il Congresso di Washington avrebbe anzi approvato leggi sia per proteggere i cittadini americani macchiatisi di crimini perseguibili dall’ICC sia, in seguito, per chiedere la chiusura di quest’ultima. Addirittura, la legge nota come “Hague Invasion Act” prevede il ricorso da parte degli USA alla forza militare per liberare cittadini americani eventualmente detenuti a L’Aia e sottoposti a incriminazione presso il tribunale.

 

I timori della classe dirigente americana, con Bolton in prima linea, erano ben giustificati già nel 2002, visto che di lì a qualche mese l’amministrazione Bush avrebbe dato il via a uno dei più gravi crimini del secondo dopoguerra, cioè l’invasione e la distruzione dell’Iraq con la scusa delle inesistenti armi di distruzione di massa.

 

I fronti su cui politici, militari e membri dell’intelligence degli Stati Uniti potrebbero finire alla sbarra per crimini di guerra sono comunque molteplici. Quello più immediato, e che ha motivato nello specifico il discorso di Bolton, è l’Afghanistan. Qualche mese fa, il pubblico ministero dell’ICC Fatou Bensouda aveva infatti sottoposto una richiesta per avviare un procedimento di indagine a carico delle forze di occupazione e del governo fantoccio di Kabul per torture di detenuti e altri gravissimi crimini.

 

Nonostante la sostanziale impotenza del tribunale, a Washington è evidente la preoccupazione non solo per i risvolti legali della vicenda, ma anche per l’effetto moltiplicatore che possibili incriminazioni formali potrebbero avere sul sentimento di profonda ostilità diffuso in Afghanistan e altrove nei confronti degli Stati Uniti.

 

Molti commentatori in questi giorni hanno fatto notare come il discorso sull’ICC di Bolton sia solo l’ultima delle mosse dell’amministrazione Trump che stanno segnando un progressivo allontanamento degli USA dall’impalcatura liberale e formalmente democratica che ha sostenuto il sistema internazionale negli ultimi sette decenni.

 

In effetti, il ritorno al potere a Washington della fazione “neo-con” della classe dirigente americana, assieme a quella ultra-nazionalista rappresentata da Trump, sta facendo registrare il progressivo abbandono anche delle pretese esteriori del ruolo degli Stati Uniti di difensori della democrazia e del diritto internazionale.

 

Questa immagine, anche se per nulla corrispondente a una realtà fatta di crimini e imposizione con la forza di interessi economici e strategici, ha comunque avuto un importanza decisiva per la stabilità globale. L’abbandono deliberato di questo equilibrio da parte del governo di Washington ha perciò implicazioni enormi, la prima delle quali è la prospettiva di crimini nuovi e ancora più gravi in nome della supremazia e dell’eccezionalismo americano.

 

Direttamente collegata al ruolo della Corte Penale Internazionale è anche un’altra decisione annunciata da Bolton nello stesso intervento di questa settimana, quella cioè della chiusura dell’ufficio di rappresentanza dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a Washington, aperto dopo gli accordi di Oslo del 1993 con il governo di Israele.

 

Qui, l’intenzione della Casa Bianca è di difendere l’alleato israeliano dalle accuse per i crimini perpetuati nei confronti del popolo palestinese. A fine 2017 e ancora lo scorso mese di maggio, leader dell’Autorità Palestinese avevano chiesto all’ICC di avviare un’indagine formale sugli ovvi crimini commessi da Israele, incluse la continua costruzione di insediamenti illegali, la demolizione di abitazioni palestinesi e l’uccisione di manifestanti pacifici e disarmati.

 

Anche in questo caso, l’iniziativa di Trump suggella in maniera formale una condotta irriducibilmente filo-israeliana che ha caratterizzato tutte le precedenti amministrazioni americane. Allo stesso tempo, la chiusura dell’ambasciata di fatto della Palestina negli USA è l’ennesima misura che in poco più di un anno e mezzo ha seppellito il cosiddetto “processo di pace” in Medio Oriente, trasformandolo sempre più nell’imposizione di diktat modellati sugli interessi e sui crimini impuniti dello stato di Israele.

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