Se ancora vi erano dubbi sul pessimo stato delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Cina, questi sono stati fugati nei giorni scorsi con la visita a Pechino in un clima estremamente teso del segretario di Stato americano, Mike Pompeo. Il capo della diplomazia USA è stato protagonista di un acceso scambio di battute con il suo omologo cinese, in quella che è sembrata la logica conseguenza di un’escalation di provocazioni messe in atto da Washington nelle ultime settimane.

 

Già il fatto che il presidente cinese, Xi Jinping, non abbia incontrato personalmente Pompeo ha dato il polso della situazione tra le prime due potenze economiche del pianeta. Il segretario di Stato ha visto invece il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, il quale di fronte alla stampa internazionale ha rimproverato gli Stati Uniti per le “continue interferenze negli affari interni ed esterni della Cina”.

 

 

In uno sfogo ben lontano dal protocollo diplomatico, Wang ha elencato alcuni dei punti caldi nei rapporti con gli USA: dalla guerra doganale, alla vendita di armi a Taiwan, alle pattuglie navali americane nelle acque rivendicate da Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

 

Lo stesso ministro cinese ha affermato che le azioni degli Stati Uniti “danneggiano i diritti e gli interessi” del suo paese ed “erodono la fiducia reciproca” tra Washington e Pechino. Un Pompeo probabilmente sorpreso dall’intensità degli attacchi del suo interlocutore si è invece limitato a riconoscere le “divergenze sostanziali” tra i due paesi sul fronte strategico ed economico.

 

La questione commerciale e dei dazi decisi dalla Casa Bianca continua a essere il catalizzatore dello scontro sempre più duro sull’asse Washington-Pechino. Dopo il secondo round di tariffe doganali, imposto a settembre da Trump sull’export cinese per il valore di 200 miliardi di dollari, il presidente americano è tornato martedì a minacciare un’altra ondata di dazi se la Cina dovesse adottare ritorsioni o se non accoglierà le richieste USA. L’ipotesi è quella di colpire la quota restante di importazioni cinesi negli Stati Uniti, pari a una cifra vicina ai 270 miliardi di dollari l’anno.

 

In un incontro con i giornalisti a Washington, Trump ha escluso che possa essere in vista un accordo commerciale con Pechino. Per l’inquilino della Casa Bianca, il governo cinese “non è ancora pronto” a trattare, sottintendendo che saranno necessarie altre misure punitive per convincere la leadership di questo paese a fare concessioni significative e a sedersi al tavolo delle trattative alle condizioni americane.

 

Le pressioni dell’amministrazione Trump non riguardano tanto il passivo della bilancia commerciale USA nei confronti di Pechino, quanto il piano di sviluppo tecnologico della Cina, che in ultima analisi minaccia la supremazia militare di Washington, e la centralità delle grandi compagnie pubbliche nel sistema economico di questo paese.

 

Il continuo precipitare delle relazioni tra USA e Cina è stato accentuato anche da un discorso pubblico tenuto settimana scorsa dal vice-presidente, Mike Pence. Presentato dai media come la prima vera elaborazione ufficiale della strategia americana nei confronti della minaccia cinese, l’intervento del numero due della Casa Bianca ha assunto toni deliberatamente aggressivi nel dipingere uno scenario cupissimo della rivalità con Pechino.

 

Pence ha in particolare ripreso le accuse contro la Cina, rivolte pochi giorni prima da Trump alle Nazioni Unite, di interferire nelle elezioni per il Congresso di novembre con l’obiettivo di indebolire l’attuale amministrazione. Questa denuncia richiama la caccia alle streghe in atto contro la Casa Bianca per le interferenze russe che avrebbero favorito l’elezione di Trump nel 2016 e lasciano intendere il possibile inizio di una campagna simile e ugualmente basata sul nulla nei confronti della Cina.

 

Il vice di Trump ha inoltre minacciato velatamente il ricorso all’arsenale nucleare americano per contrastare la minaccia cinese, mentre ha rispolverato l’arma dei diritti umani per denunciare gli abusi, con ogni probabilità ingigantiti, commessi dal governo di Pechino contro la minoranza musulmana nelle regioni occidentali del paese.

 

Per quanto riguarda possibili iniziative nel breve periodo da parte americana, si rincorrono le voci di un’operazione provocatoria nel Mar Cinese Meridionale da parte delle forze navali USA, forse in collaborazione con alleati regionali come Australia o Giappone. Un’iniziativa di questo genere arriverebbe in risposta all’incidente sfiorato alla fine di settembre tra due navi militari di Stati Uniti e Cina, giunte a una quarantina di metri l’una dall’altra mentre quella americana era entrata intenzionalmente in acque contese e sui cui Pechino rivendica il controllo.

 

L’offensiva americana anti-cinese prosegue in ogni caso su tutti i fronti possibili e anche quello di Taiwan è tornato in questi giorni a occupare le prime pagine dei giornali. Dopo il recente riconoscimento diplomatico della Cina al posto di Taiwan da parte di alcuni paesi latino-americani, Washington ha risposto annunciando ingenti forniture di armi a Taipei, incontrando l’inevitabile reazione di Pechino.

 

Mercoledì, in un intervento senza dubbio coordinato con Washington, la presidente taiwanese, Tsai Ing-wen, ha denunciato inoltre le “pressioni” cinesi e promesso un impulso decisivo alla sicurezza del suo paese per impedire che Pechino “alteri lo status quo nello Stretto di Taiwan”.

 

Le trattative diplomatiche tra Stati Uniti e Corea del Nord stanno contribuendo anch’esse ad alimentare lo scontro con la Cina. Prima di giungere a Pechino, il segretario di Stato americano Pompeo si era recato per la quarta volta negli ultimi mesi a Pyongyang, dove ha incontrato il leader nordcoreano, Kim Jong-un.

 

Al contrario della precedente visita, quest’ultima è sembrata avere un esito relativamente positivo, con il regime che avrebbe acconsentito a ospitare ispettori internazionali incaricati di verificare l’avvenuta distruzione dell’impianto nucleare di Pungghye-ri. Pompeo e Kim avrebbero anche discusso di un possibile secondo faccia a faccia tra quest’ultimo e Trump, dopo quello storico di giugno a Singapore.

 

Se gli sviluppi dei negoziati sono ancora lontani dal fare intravedere risultati concreti, anche solo l’apparenza di una possibile distensione tra Washington e Pyongyang che escluda la Cina sembra preoccupare la leadership Comunista, viste le implicazioni strategiche del processo in corso. Con il procedere dei colloqui risulta infatti sempre più evidente l’obiettivo americano di sottrarre la Corea del Nord all’influenza di Pechino e di fare di questo paese un potenziale alleato nella competizione con la Repubblica Popolare Cinese.

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