A due settimane dalla sparizione del giornalista saudita, Jamal Khashoggi, all’interno del consolato del suo paese a Istanbul, le ramificazioni e le problematiche sollevate dalla vicenda ancora non risolta continuano a emergere in tutta la loro complessità, riflettendosi su un’atmosfera mediorientale fatta di crescenti tensioni tra alleati o presunti tali e i governi occidentali.

 

Le accuse rivolte ai vertici della monarchia saudita da parte di Ankara sono state supportate nei giorni scorsi dalla notizia che le autorità turche sarebbero in possesso di registrazioni che documentano l’interrogatorio, le torture e l’assassinio del giornalista nella rappresentanza diplomatica di Istanbul. Il materiale esplosivo proverrebbe dall’Apple watch di Khashoggi, sincronizzato col suo telefono rimasto nelle mani della fidanzata, o più probabilmente da dispositivi di sorveglianza installati dall’intelligence turca nel consolato saudita.

 

 

I servizi segreti americani hanno comunque anche loro confermato la versione della Turchia, anche se gli USA non sembrano essere semplici spettatori del caso. Già settimana scorsa la stampa americana aveva scritto che il governo di Washington era venuto a conoscenza di una trama saudita per rapire Khashoggi e riportarlo verosimilmente in patria. I motivi per cui quest’ultimo non sia stato avvertito non sono ancora chiari, nonostante vivesse da quasi un anno negli Stati Uniti, né i giornali d’oltreoceano hanno indagato a fondo sulla questione.

 

Lunedì, intanto, un team legale turco è entrato eccezionalmente nel consolato di Istanbul per eseguire perquisizioni nel quadro dell’indagine congiunta concordata tra Erdogan e i vertici sauditi, mentre la stampa locale ha parlato dell’ipotesi che il giornalista sia stato sciolto nell’acido. A Washington e in Europa si stanno invece moltiplicando le richieste al regime saudita di fare chiarezza sulla sorte di Khashoggi o, in maniera non esplicita, a fornire una spiegazione plausibile che consenta di mantenere gli attuali rapporti con Riyadh.

 

Il presidente americano Trump lo ha confermato sempre lunedì, quando è sembrato voler confondere le acque in un’azione forse coordinata con Riyadh. Trump ha affermato di avere ricevuto rassicurazioni sull’innocenza del regime saudita dopo una conversazione telefonica con re Salman e che quindi i responsabili della morte di Khashoggi potrebbero essere dei “cani sciolti” fuori dal controllo della monarchia del Golfo Persico. Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, è stato comunque inviato in Arabia Saudita per fare luce sulla vicenda.

 

Il caso sta provocando non pochi imbarazzi in Occidente soprattutto perché sembra molto probabile che l’assassinio del giornalista saudita sia stato autorizzato ai vertici della monarchia wahhabita. Anzi, anche i media ufficiali non esitano a tirare in ballo l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (MBS), considerato quasi unanimemente il vero detentore del potere a Riyadh.

 

MBS gode di molti estimatori negli Stati Uniti e in Europa, dove è spesso considerato un autentico riformatore della monarchia assoluta. Collegarlo direttamente a un assassinio cruento in una sede diplomatica nel territorio di un paese straniero rischia perciò di incrinare questa immagine e, di conseguenza, le relazioni con l’Arabia Saudita. Buon parte delle politiche mediorientali soprattutto americane si fondano infatti su questo paese e hanno evidenti implicazioni strategiche ed economiche, a cominciare dalle ingenti forniture di armi a beneficio della casa regnante.

 

Allo stesso tempo, MBS non è mai stato il preferito alla successione al trono dell’intelligence americana. Secondo la gran parte degli osservatori, l’uomo della CIA a Riyadh era piuttosto Mohammed bin Nayef, a lungo responsabile della sicurezza interna saudita. Nayef era stato scelto inizialmente da re Salman come erede alla corona saudita, per poi essere messo da parte e sostituito dal giovane principe Mohammed bin Salman nel giugno del 2017.

 

A molti sembra possibile che determinate sezioni dell’apparato di potere americano stiano facendo pressioni sulla Casa Bianca per adottare provvedimenti contro l’Arabia Saudita sul caso Khashoggi, in modo da indurre, nell’ipotesi più estrema, un nuovo rimescolamento nella linea di successione al trono. La condotta irresponsabile e criminale fin qui tenuta da MBS, basti pensare alla guerra in Yemen, rende d’altra parte sempre più instabile il Medio Oriente e insostenibile agli occhi dell’opinione pubblica occidentale l’alleanza con Riyadh.

 

Ad alimentare sospetti sull’esistenza di una campagna di questo genere è in primo luogo il mancato avviso recapitato a Khashoggi sui rischi che avrebbe incontrato presentandosi al consolato saudita di Istanbul. Così facendo, l’intelligence americana avrebbe lasciato che venisse portata a termine un’operazione da usare contro la leadership saudita, come sta appunto accadendo.

 

Che la vicenda Khashoggi sia quanto meno sfruttata dalla CIA per promuovere i propri interessi in Arabia Saudita è confermato anche da un recente intervento sul Washington Post dell’ex direttore della stessa agenzia di Langley, John Brennan. Quest’ultimo ha assicurato che l’operazione che ha coinvolto il giornalista saudita deve avere avuto il via libera dai vertici del regime.

 

Se la morte di Khashoggi fosse dunque confermata, ha aggiunto Brennan, l’amministrazione Trump e il Congresso avrebbero il dovere di agire in maniera ferma, adottando una o più misure, tra cui sanzioni contro i responsabili, il congelamento delle forniture di armi o la sospensione della collaborazione tra le rispettive comunità di intelligence.

 

L’importanza dell’articolo di Brennan risiede, oltre che nel fatto che da ex veterano ed ex numero uno della CIA ne esprime tuttora il punto di vista, nel suo essere uno dei più accesi oppositori dell’attuale amministrazione all’interno della classe dirigente americana.

 

Trump vede d’altronde le pressioni sul caso Khashoggi come un nuovo attacco dei rivali interni nei suoi confronti, poiché la leadership saudita e, in particolare, il principe Mohammed bin Salman sono il fulcro della strategia mediorientale della Casa Bianca. Una partnership, quella tra l’amministrazione Trump e MBS, che ha visto quest’ultimo instaurare un rapporto strettissimo con il genero del presidente, Jared Kushner, e sui cui trovano fondamento alcuni fattori cruciali per Washington.

 

Tra di essi ci sono il sostegno al mercato del greggio per compensare la diminuzione di quello iraniano colpito dall’imminente reintegro delle sanzioni, la vendita di armi per centinaia di miliardi di dollari e la salvaguardia di una esile copertura politica che consenta agli USA di presentare un “piano di pace” per la questione palestinese nell’interesse di Israele.

 

Per queste ragioni, la risposta da dare al probabile assassinio di Khashoggi rappresenta per Trump un grattacapo politico e strategico non indifferente. Ciò è dimostrato dalla reazione risentita arrivata nel fine settimana da Riyadh alle minacce che circolano in Occidente. Il regime ha promesso azioni di particolare gravità se dovesse essere preso di mira da sanzioni o provvedimenti punitivi.

 

Nel concreto, gli avvertimenti sauditi sono stati descritti dal direttore della testata ufficiale Al Arabiya in un editoriale nel quale si prospetta, tra l’altro, una sorta di alleanza energetica tra Riyadh e Mosca per abbattere la produzione di petrolio e far salire le quotazioni oltre i 100 dollari il barile, con conseguenze potenzialmente rovinose sull’economia mondiale.

 

In un’eventuale rottura tra Washington e Riyadh, ancorché ben lontana dal materializzarsi, ci sarebbero ripercussioni economiche enormi, visti gli interessi del business americano in Arabia Saudita. Alcune delle preoccupazioni diffuse in questo ambito si possono osservare nei preparativi per la conferenza di questo mese nella capitale saudita conosciuta come la “Davos del deserto” e a cui prendono parte solitamente importanti leader politici e i top manager della finanza internazionale.

 

Nel vortice della polemica sul caso Khashoggi, per non essere associati a un regime sanguinario, alcuni partecipanti hanno già dichiarato di voler rinunciare all’evento, mentre altri, come il segretario al Tesoro USA, Steven Mnuchin, sono sotto pressione per cancellare la loro presenza.

 

La monarchia saudita, infine, ha già mostrato negli ultimi tempi più di un segnale di apertura nei confronti della Russia, per non parlare della collaborazione già ben avviata nel settore energetico con la Cina. Queste dinamiche sarebbero con ogni probabilità accelerate, trasformandosi in azioni decisamente poco gradite a Washington, in caso di misure punitive decise dal governo americano, la cui residua capacità di esercitare un qualche controllo sull’economia e gli equilibri globali deriva oltretutto e in buona parte dallo storico accordo con Riyadh sulla centralità dei “petrodollari”.

 

In gioco nella vicenda Khashoggi vi sono dunque questioni strategiche ed economiche vitali che fanno prevedere difficili e, forse, prolungate trattative per giungere a una soluzione accettabile a tutte le parti in causa e che risulti la meno destabilizzante in un panorama mediorientale e internazionale già scosso da competizioni e rivalità da tempo ben oltre il livello di guardia.

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