A giudicare dalle prime parole pronunciate dal primo ministro giapponese, Shinzo Abe, dopo il suo arrivo in Cina nella giornata di giovedì, le gravi tensioni tra Tokyo e Pechino che hanno caratterizzato buona parte degli ultimi sei anni sono sembrate poco più che un lontano ricordo. Se i due giganti asiatici continuano ad avere profonde divergenze strategiche, le relazioni bilaterali sono in effetti in netto miglioramento, soprattutto come riflesso delle politiche ultra-nazionaliste e protezioniste dell’amministrazione Trump che stanno colpendo entrambi.

 

In un evento dedicato ai festeggiamenti per il 40esimo anniversario del trattato di amicizia tra i due paesi, il premier nipponico ha espresso il desiderio di portare la cooperazione con la Cina in “una nuova dimensione” e in “una nuova era”. Abe ha anche ricordato come Tokyo e Pechino abbiano oggi “un ruolo essenziale nella crescita economica non solo dell’Asia, ma di tutto il mondo”.

 

 

Abe non ha prevedibilmente nominato gli Stati Uniti come fattore decisivo nella distensione dei rapporti con Pechino. Tuttavia, il riferimento indiretto a Washington è apparso chiaro quando ha sostenuto che, “vista la crescita del numero di problemi impossibili da risolvere da parte di un singolo paese, è arrivato il momento per Giappone e Cina di contribuire congiuntamente alla pace e alla prosperità del pianeta”.

 

L’attitudine di Abe ha trovato riscontro in quella del suo omologo cinese, Li Keqiang, il quale, durante la stessa cerimonia, ha ricordato la coincidenza tra il crescere delle “incertezze relative alla politica e all’economia globale” e il ritorno alla normalità dei rapporti sino-giapponesi, con “effetti benefici per la regione [dell’Asia orientale]” e non solo.

 

Shinzo Abe trascorrerà tre giorni in Cina e nella giornata di venerdì incontrerà il presidente Xi Jinping. La sua è la prima visita ufficiale in Cina di un premier giapponese dal dicembre 2011, anche se lo stesso Abe si era già recato in questo paese per partecipare a forum internazionali.

 

Cina e Giappone sono divisi da rivalità storiche e strategiche ben note, ma le relazioni erano precipitate nel 2012 in seguito alla nazionalizzazione delle isole Senkaku (Diaoyu in cinese), situate nel Mar Cinese Orientale e rivendicate da Pechino, da parte dell’allora governo giapponese di centro-sinistra. Alla dura reazione di Pechino a questa decisione erano seguite proteste popolari che avevano preso di mira aziende, rappresentanze diplomatiche e cittadini giapponesi in territorio cinese.

 

L’ambito economico e commerciale è ad ogni modo quello che promette gli sviluppi più fruttuosi nei rapporti Cina-Giappone. Esso è anche quello su cui si sono concentrate le azioni americane che hanno penalizzato entrambi i paesi. La questione dei dazi minaccia di colpire pesantemente l’export cinese verso gli Stati Uniti, dopo che la Casa Bianca ha annunciato in varie fasi l’applicazione di nuove tariffe doganali su beni per un valore di 250 miliardi di dollari l’anno.

 

Il governo di Tokyo è tuttora sotto la minaccia di dazi americani sulle esportazioni di auto ed ha già subito a sua volta misure punitive su quelle di acciaio e alluminio, vedendosi oltretutto chiudere la porta in faccia da Trump quando il Giappone è stato escluso da un provvedimento di deroga garantito invece ad altri alleati di Washington. Abe, inoltre, aveva dovuto incassare già all’inizio del mandato di Trump il boicottaggio americano del trattato di libero scambio Partnership Trans Pacifica (TPP), sul quale aveva puntato per il rilancio dell’economia del suo paese.

 

Il nodo attorno a cui potrebbe svilupparsi una partnership sino-giapponese è con ogni probabilità il mega-progetto infrastrutturale e di integrazione economica cinese noto come “Belt and Road Initiative” (BRI) e già “Nuova Via della Seta”. L’atteggiamento di Abe nei confronti di questa iniziativa è stato in realtà finora ambivalente.

 

Da un lato è chiaro l’interesse per una serie di opportunità di crescita che nessun altro paese o progetto internazionale è in grado di prospettare. Dall’altro Tokyo ha sempre mantenuto un atteggiamento di prudenza, sia per le già ricordate tensioni con la Cina sia per ragioni strategiche da collegare all’ostilità per la BRI dell’alleato americano.

 

Nella sua visita a Pechino, è dunque improbabile che il primo ministro giapponese annunci l’adesione del suo paese alla BRI. L’impegno, manifestato anche da esponenti del governo di Tokyo prima della partenza di Abe, a esplorare piani di collaborazione con la Cina nello sviluppo di altri paesi o regioni sembra però implicare almeno una futura partecipazione giapponese alla “Nuova Via della Seta”.

 

La Cina è comunque già il primo partner commerciale del Giappone e, al di là del formale abbraccio della BRI da parte di Abe, è inequivocabile l’intenzione di entrambi i governi di sviluppare la collaborazione in questo e altri ambiti. A sottolineare il concetto c’è tra l’altro la presenza di 500 top manager giapponesi del settore privato nella delegazione in visita a Pechino sotto la guida del primo ministro conservatore.

 

Dal punto di vista cinese, la normalizzazione dei rapporti con Tokyo non rappresenta soltanto una possibilità per compensare eventuali contraccolpi derivanti dai dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti. Sul fronte strategico e militare è necessario infatti per Pechino limitare le tensioni al minimo con il proprio vicino alla luce della crescente aggressività americana, confermata ancora una volta di recente da un bellicoso discorso del vice-presidente Mike Pence che ha identificato la Cina come principale rivale strategico di Washington su scala globale.

 

Nella migliore delle ipotesi, la leadership cinese aspira a creare un solco tra USA e Giappone, facendo leva in particolare sulla necessità di difendere il principio della libera circolazione delle merci contro le tendenze protezioniste della Casa Bianca.

 

Malgrado il clima più che cordiale registrato a Pechino in questi giorni e i fattori oggettivi che spingono la classe dirigente nipponica a perseguire le proprie ambizioni da grande potenza indipendentemente dall’alleato americano, i motivi di scontro tra Cina e Giappone restano numerosi e profondi, tanto che la maggior parte degli osservatori ha assegnato un’importanza prevalentemente simbolica alla trasferta di Shinzo Abe.

 

Proprio nel quadro dell’espansione dell’influenza economica e diplomatica nel continente asiatico, il Giappone sta cercando di proporsi come potenza alternativa alla Cina attraverso una serie di iniziative dello stesso premier Abe. Ad esempio, il Giappone è oggi tra i principali fornitori di aiuti finanziari a paesi come il Myanmar, ha siglato svariati accordi per la creazione di nuove infrastrutture e ha preso parte a esercitazioni militari in acque contese e rivendicate da Pechino.

In cima all’agenda del governo di Tokyo resta poi il sostanziale smantellamento del carattere pacifista della Costituzione giapponese, in modo da consentire alle forze armate, oggi definite di “auto-difesa”, di essere utilizzate in pieno come strumento per la promozione degli interessi della classe dirigente del paese. Ciò, com’è evidente, rappresenta una minaccia per la Cina e si innesta in un processo di militarizzazione nel quale è coinvolto in pieno anche il governo di Pechino per contrastare l’offensiva di Washington.

 

I due paesi, infine, non sono particolarmente in sintonia nemmeno sulla questione nordcoreana, mentre il Giappone, nonostante le divisioni interne e le pulsioni contrastanti della politica e del business indigeni, ha abbracciato l’alleanza “quadrilaterale” con Stati Uniti, India e Australia promossa in funzione anti-cinese dall’amministrazione Trump.

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