L’Onu lo ha definito un “successo storico” che apre la strada alla prossima Conferenza Nazionale ma, più prosaicamente, è probabile che l’ottimismo sia figlio della paternità Onu della Conferenza sulla Libia; la quale però, anche in considerazione dell’assenza di un documento conclusivo, può ben essere definita una parata dalle prospettive incerte. D’altronde, che l’esito non sarebbe stato particolarmente positivo era chiaro a tutti; non a caso i capi di governo occidentali si sono tenuti a debita distanza ed hanno delegato ai rispettivi sherpa la costruzione del percorso che avrà bisogno di diverso tempo per divenire un accordo (ammesso che ciò avvenga).

 

 

Sì perché anche se il Generale Haftar all’ultimo momento ha scelto di partecipare ai lavori, è tutto da misurare il livello dell’intesa possibile tra le diverse fazioni libiche che sono dotate di una struttura politico-militare e che si contendono almeno due delle tre grandi regioni che formano il paese. Il mancato incontro tra i due in sede di plenaria non c’è stato, con grande dispiacere dell’apparato mediatico e politico che aveva puntato sulla conferenza. Il Generale Haftar non aveva nessuna intenzione di legittimare internazionalmente il governo di Al Sarraj, che si tiene in piedi solo con il sostegno dell’Italia e degli USA (sebbene defilati) e dunque non ha voluto partecipare alla plenaria conclusiva.

 

Difficile dargli torto: infatti, con la Risoluzione ONU 2441 sull’embargo nell’acquisto di armi, Al Sarraj potrà acquistarle. Dovrebbe - stando alla risoluzione - utilizzarle contro le formazioni islamiste come Al Queda, Ansar Al Sharia ed altri gruppi di tagliagole, ma è del tutto evidente che l’Esercito nazionale libico di Haftar sia nel mirino. Non a caso, per il maresciallo di Tobruk, invece, l’embargo resta. Ovvio che l’Occidente mira a contenere Haftar tanto quanto le milizie islamiche, dal momento che il maresciallo di Tobruk ha trovato un’intesa con Mosca che preoccupa Washington, Londra e Roma più di quanto non riescano i mercenari islamici.

 

Tanto Haftar, che controlla l’Esercito nazionale libico che fa capo al Parlamento di Tobruk nell’est del paese, come Al Sarraj, il premier del governo di Tripoli, creato dalla comunità occidentale e dall’Italia, hanno un ridotto margine di manovra dato il caos assoluto che regna in quello che, fino alla caduta di Gheddafi, nella stabilità politica e di crescita economica aveva due tra le più importanti caratteristiche.

 

Per riprendersi con la forza il petrolio libico (tra i migliori del mondo), eliminare l’Italia (primo partner commerciale e interlocutore politico di Gheddafi) eliminare le prove dei finanziamenti libici a Sarkozy, Parigi scelse il colpo di stato in Libia quale misura del suo nuovo protagonismo coloniale. Si aggiunsero all’impresa Londra e Washington, con quest’ultima che voleva la caduta del Colonnello libico proprio per completare il piano delle cosiddette “primavere”, ovvero l’eliminazione di ogni stato laico ad orientamento panarabista e progressista.

 

La Libia oggi è un inferno a cielo aperto, che non crolla su se stessa solo per il sostegno che l’Occidente offre in considerazione del riverbero che esso avrebbe sull’intero Maghreb. All’Italia è toccata l’ondata di migranti e la vergogna degli accordi sui campi di prigionia, dove le milizie fanno scempio di ogni umanità sulla pelle dei migranti. Sono tornate a governare le tribù. La Somalia sembra essere il modello.

 

La Conferenza di Palermo ha dunque mosso un piccolo sasso nello stagno e, al momento, si misura soprattutto la contraddizione occidentale, visto che alcuni gruppi terroristici islamisti operanti in Libia sono imparentati con quelli operanti in Siria dove sono alleati con USA e GB.

 

Ciononostante un’intesa tra Al Sarraj e Haftar in funzione anti-islamista sembra essere percorso obbligato, terreno inevitabile per la ricomposizione unitaria del paese che è presupposto minimo per riaprire il dialogo nazionale. Conscio di ciò, Haftar ha dato assicurazioni riguardo alla possibilità di lasciare Al Sarraj al governo fino alle elezioni che, secondo il piano ONU, dovrebbero tenersi nella primavera del 2019. “Non si cambia cavallo mentre si attraversa il fiume”, ha detto il generale nel corso della riunione con Sarraj.

 

La Turchia, che continua a recitare un ruolo ad esclusivo interesse delle sue mire di potenza regionale, ha disertato la plenaria conclusiva, infastidita dal non essere stata invitata al summit tra Haftar e Al Serraj. Ankara ritiene ormai di dover dettare l’agenda politica internazionale su Libia, Siria, Egitto ed Irak e lo fa giocando su due aspetti: l’identità politico-religiosa che immagina possa porla ad un ruolo di rilievo nella comunità islamica di rito sunnita da un lato e l’appartenenza alla Nato (la Turchia, dopo gli USA, è il maggiore esercito dell’Alleanza ndr) che spera possa determinare una parte della linea politica dell’Occidente, spinge Erdogan a considerarsi il centro della manovra complessiva di riassetto politico mediorientale.

 

Un riassetto del quale, a dire il vero, non vi è traccia; la sconfitta dell’Occidente e dei suoi alleati israelo-sauditi in Siria, si è accompagnato alla ripresa di un ruolo importante della Russia nell’area e con una risposta militare sul terreno da parte di Siria, Iran ed Hezbollah che ha fatto ripiegare i calcoli degli Stranamore occidentali su un nuovo Medio Oriente da consegnare armi, bagagli e risorse energetiche a Ryad e Tel Aviv. Dopo milioni di morti e sfollati, distruzioni e orrori, l’Occidente si trova con il cerino in mano come prospettiva e un fallimento politico alle spalle come verità acquisita.

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