La rivalità tra Cina e Stati Uniti sta ormai raggiungendo una gravità tale che anche nei vertici internazionali, solitamente caratterizzati da manifestazioni esteriori di cordialità e distensione, gli scontri verbali e sui contenuti stanno sempre più emergendo in maniera lampante, generando ulteriori tensioni e peggiorando ancora di più lo stato delle relazioni bilaterali.

 

Un esempio di ciò si è avuto nel corso dei due summit tenuti nei giorni scorsi a Singapore e a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, dove si sono riuniti rispettivamente l’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sudorientale (ASEAN) e la Cooperazione Economica dell’Asia-Pacifico (APEC).

 

 

In particolare, i partecipanti a quest’ultimo forum hanno assistito all’esplosione del conflitto tra Washington e Pechino quando, nella giornata di domenica, per la prima volta i 21 membri dell’organizzazione non sono stati in grado di accordarsi sul testo di un comunicato finale. La mancata intesa ha suggellato una due giorni che ha avuto come clou il durissimo scontro a distanza tra il presidente cinese, Xi Jinping, e il vice di Trump, Mike Pence.

 

Il vice-presidente americano ha lanciato un attacco a tutto campo contro la Cina e la crescente influenza di questo paese in Asia orientale. Pence ha mostrato in primo luogo l’intenzione del suo governo di proseguire e, anzi, intensificare la guerra dei dazi se Pechino non accetterà le condizioni imposte dalla Casa Bianca.

L’inviato di Trump si è poi scagliato sull’ambizioso progetto infrastrutturale e strategico euroasiatico chiamato ufficialmente “Belt and Road Initiative” (BRI), evocando le ricorrenti critiche agli accordi da esso previsti e già stipulati con numerosi paesi soprattutto asiatici, a suo dire incastrati in una sorta di “trappola del debito” che li renderebbe vincolati al governo cinese.

 

L’altro fronte dello scontro è stato invece il Mar Cinese Meridionale e la condanna della “militarizzazione” e delle “espansioni territoriali” a cui Pechino starebbe dando impulso in aree contese con altri paesi della regione. Già durante il summit dell’ASEAN a Singapore, Pence aveva affermato che “il Mar Cinese Meridionale non appartiene a nessun paese” e promesso che gli USA continueranno a inviare pattuglie navali anche nelle acque rivendicate dalla Cina.

 

L’intervento di Mike Pence in Papua Nuova Guinea aveva così ignorato completamente gli inviti al dialogo e alla collaborazione del presidente cinese. In precedenza, Xi Jinping aveva ancora una volta presentato il suo governo come il principale difensore del libero scambio, per poi mettere in guardia dalle pericolose tendenze protezionistiche, dal miraggio dell’unilateralismo e dai conflitti sempre più intensi che minacciano di “precipitare l’umanità in una catastrofe” simile a quella degli anni Quaranta del secolo scorso.

 

Le parole del vice-presidente americano hanno inevitabilmente scosso l’atmosfera dei due vertici asiatici, con i paesi che vi hanno preso parte costretti a fare i conti con le conseguenze strategiche del confronto tra le due principali potenze economiche del pianeta, a cominciare dalla necessità sempre meno derogabile di prendere una posizione netta a favore dell’una o dell’altra.

 

Il numero due della Casa Bianca, da parte sua, sembra essere diventato il punto di riferimento per il governo USA nella guerra in corso contro Pechino, soprattutto dopo un discorso pubblico nel mese di ottobre che aveva in sostanza ufficializzato i principi anti-cinesi della politica estera dell’amministrazione Trump, basati sul contrasto in tutti i modi alla crescita di un paese visto come la minaccia numero uno alla posizione americana su scala globale.

 

L’ambito nel quale le scintille tra Washington e Pechino sono emerse più chiaramente nei giorni scorsi è stato comunque quello degli scambi commerciali. Secondo il primo ministro della Papua Nuova Guinea, Peter O’Neill, il nodo della disputa che ha impedito l’accordo su un comunicato congiunto dell’APEC ha avuto a che fare appunto con il ruolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e della necessità di riformarne la struttura e il funzionamento. Lo stesso O’Neill non ha fatto segreto del disaccordo tra USA e Cina alla base della mancata dichiarazione finale, anche se ha ricordato come le questioni relative alla natura del WTO abbiano poco o nulla a che vedere con lo statuto dell’APEC.

 

Il suo paese è ad ogni modo uno tra quelli al centro dello scontro USA-Cina, come si è visto durante il vertice ospitato nella capitale Port Moresby, e perciò esposto a enormi pressioni che rischiano di mettere in crisi la classe dirigente locale. Stati Uniti, Australia, Giappone e Nuova Zelanda, ad esempio, hanno annunciato proprio domenica un progetto da 1,7 miliardi di dollari per portare elettricità e collegamento a internet alla parte consistente di abitanti della Papua Nuova Guinea che ne è tuttora sprovvista. Washington e Canberra parteciperanno poi a un progetto per il rimodernamento di una base navale su un’isola appartenente alla Papua Nuova Guinea, sempre nell’ottica del contenimento della Cina, in questo caso con mezzi militari.

 

Altri accordi commerciali il governo del paese ospitante il summit APEC li ha siglati anche con la Cina, dopo che il presidente Xi, nella giornata di venerdì, aveva incontrato i leader dei paesi dell’area Pacifico per promuovere iniziative legate alla BRI o “Nuova Via della Seta”.

 

A livello generale, i piani cinesi di integrazione euroasiatica, stimati complessivamente in oltre mille miliardi di dollari, stanno assumendo sempre più una connotazione strategica oltre che economica e commerciale, con tutte le implicazioni del caso. I progetti di costruzione in corso o in fase di studio di infrastrutture e vie di comunicazione in ormai numerosi paesi non sono più visti cioè come fondamentali solo per la continua crescita dell’economia cinese. Essi dovranno servire anche ad assicurare il mantenimento di rotte necessarie a importare risorse energetiche e materie prime nell’eventualità di un blocco di quelle tradizionali se dovesse esplodere un conflitto con gli Stati Uniti.

 

D’altro canto, il governo americano intende far naufragare precisamente questo disegno cinese, in grado di dare una spinta fondamentale ai processi multipolari in atto, convincendo i paesi asiatici, attratti sempre più nell’orbita di Pechino, a svincolarsi da progetti bollati come onerosi e portatori di corruzione. La strada scelta da Washington per raggiungere questo obiettivo continua a essere principalmente quella degli accordi militari e delle pressioni diplomatiche, mentre sul fronte economico, finanziario o infrastrutturale i pur esistenti sforzi di Washington risultano lontanissimi dal peso e dall’appeal della proposta cinese.

 

Nell’immediato futuro, lo scontro tra Stati Uniti e Cina tornerà con ogni probabilità a spostarsi principalmente in ambito commerciale. A partire dal primo gennaio prossimo, salvo improbabili progressi in un dialogo che rimane ingolfato, i dazi doganali decisi da Trump sulle importazioni cinesi per un valore di 250 miliardi di dollari saliranno dal 10% al 25%. In parallelo, anche la restante quota di merci esportate dalla Cina verso gli USA potrebbe essere gravata da pesanti tariffe doganali.

 

Per favorire il negoziato, recentemente il governo di Pechino ha presentato una serie di concessioni che sarebbe disposto a fare a Washington, ma la Casa Bianca le ha giudicate insufficienti. Il riequilibrio della bilancia commerciale è d’altra parte di importanza secondaria per l’amministrazione Trump, il cui obiettivo primario, a costo di pagare pesanti conseguenze economiche, è piuttosto quello di fermare il piano di sviluppo tecnologico e industriale cinese che, in meno di un decennio, potrebbe minacciare la supremazia militare americana nel pianeta.

 

Il prossimo round della battaglia in atto tra le due potenze, che in molti hanno già battezzato come una nuova Guerra Fredda, è previsto ora per la fine di novembre in Argentina, dove, a margine del G-20, un faccia a faccia tra Trump e Xi potrebbe avvenire in un clima a dir poco esplosivo.

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