Il primo ministro britannico, Theresa May, ha iniziato una serie di colloqui con i leader europei nella giornata di martedì che, nelle sue più rosee aspettative, dovrebbero garantirle qualche concessione in merito all’accordo già siglato con Bruxelles sulla Brexit, così da rimediare a una situazione interna quasi disperata per il governo conservatore. Il premier olandese, Mark Rutte, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, hanno espresso un generico sostegno alla premier, ma hanno escluso fermamente la possibilità di riaprire i negoziati con Londra.

 

 

La trasferta sul continente della May si è resa necessaria dopo la clamorosa decisione di lunedì di rinviare il voto del Parlamento di Londra sui termini dell’intesa per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La premier aveva infatti dovuto ammettere che il suo accordo con l’Europa sarebbe stato respinto con “un margine significativo”, aprendo un nuovo e se possibile ancora più grave capitolo della crisi che da oltre due anni sta paralizzando la classe politica britannica.

 

La May si trova assediata da tempo su più fronti, ma il pericolo più immediato per il suo gabinetto è rappresentato dai sostenitori conservatori della Brexit e dalla delegazione alla Camera dei Comuni del Partito Democratico Unionista nordirlandese (DUP), che le garantisce una maggioranza parlamentare. Questi due gruppi che sostengono il governo erano infatti pronti martedì a votare contro l’accordo sulla Brexit, principalmente a causa del cosiddetto “backstop”, cioè la clausola studiata da Londra e Bruxelles per evitare il ripristino di controlli doganali lungo la linea di confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda.

 

I partigiani della Brexit e gli unionisti nordirlandesi temono che questa soluzione rischi di diventare permanente, visto che non sarebbe prevista una procedura di uscita dal “backstop” in assenza di un nuovo trattato commerciale tra l’UE e la Gran Bretagna quando quest’ultimo paese avrà abbandonato l’Unione. Il dispositivo che verrà implementato potrebbe perciò tenere di fatto l’Irlanda del Nord nell’UE e creare così una spaccatura all’interno del Regno Unito che, tra l’altro, impedirebbe a Londra di siglare accordi commerciali con altri paesi.

 

Le speranze della May di ottenere una qualche concessione da Bruxelles sono comunque esili. Il presidente del Consiglio d’Europa, Donald Tusk, già lunedì aveva mostrato disponibilità a discutere nuovamente con Londra, escludendo però un nuovo negoziato sulla questione irlandese. Tutt’al più, Tusk ha ipotizzato un aiuto al governo conservatore per favorire la ratifica dell’accordo, mentre ha avvertito che “il tempo sta per scadere” e l’UE deve essere pronta per un possibile scenario che includa una “hard Brexit”, ovvero l’uscita di Londra dall’Europa senza un accordo che regoli i rapporti futuri.

 

Sfiducia e scetticismo sono ampiamente diffusi anche in Gran Bretagna, nonostante i tentativi di rassicurazione della May sulla disponibilità dell’Europa. Uno dei leader dei cosiddetti “Brexiteers”, il deputato conservatore Jacob Rees-Mogg, ha anticipato che qualsiasi garanzia il primo ministro riuscirà eventualmente a ottenere sul “backstop” risulterà “completamente irrilevante” se, come assicurano da Bruxelles, non verrà inserita nel testo dell’accordo con l’UE.

 

Anche se apparentemente senza prospettive, la strategia di Theresa May sembra essere quella di prendere tempo e cercare di fare pressioni sia sugli euro-scettici sia sui filo-europei, nel suo partito e non solo, per convincerli alla fine a votare di qui a qualche settimana per un accordo in sostanza simile a quello attuale. La scadenza potrebbe coincidere con il 21 gennaio, data nella quale il capo del governo dovrebbe essere chiamato a riferire in parlamento nel caso non fosse raggiunto un accordo con l’Europa sulla Brexit.

 

La speranza della premier è che entrambe le fazioni finiscano per accettare la sua soluzione, l’unica sul tavolo che consenta di evitare quello che viene prospettato come uno scenario catastrofico per il business britannico, cioè appunto una Brexit senza un’intesa con l’Unione Europea.

 

A remare contro il governo sono anche coloro che chiedono una revisione dei rapporti con Bruxelles per fare in modo che la Gran Bretagna, pur uscendo formalmente dall’UE, resti in maniera definitiva all’interno del mercato comune europeo. Questa posizione rispecchia ovviamente gli interessi del capitalismo britannico più legato al continente. In larga misura simili sono gli orientamenti di chi vorrebbe un nuovo referendum con l’obiettivo di cancellare del tutto la Brexit.

 

Questi ultimi hanno visto salire le loro azioni sempre nella giornata di lunedì, quando la Corte Europea di Giustizia ha decretato che Londra avrebbe la facoltà di invertire il processo di uscita dalla UE in maniera unilaterale, senza cioè ricevere l’approvazione degli altri 27 paesi membri. Il tribunale si è espresso su una causa, presentata da oppositori della Brexit nel Partito Laburista e in quello nazionalista scozzese (SNP), che intendeva garantire al parlamento il diritto a revocare l’Articolo 50 in qualsiasi momento entro la data fissata per l’addio formale di Londra all’Unione, ovvero il 29 marzo prossimo.

 

Malgrado la posizione della May appaia sempre più precaria, a sua disposizione resta un’altra arma per provare a uscire dalla crisi. Il primo ministro continua cioè ad agitare lo spettro di elezioni anticipate che, secondo i sondaggi, vedrebbero il Partito Conservatore sconfitto e, peggio ancora, porterebbero direttamente a Downing Street il leader laburista Jeremy Corbyn. Lo spauracchio di Corbyn potrebbe comunque non bastare a evitare alla premier un attacco alla propria leadership dall’interno del suo partito.

 

In questi giorni si rincorrono infatti le voci di una possibile mozione di sfiducia contro la May ad opera dell’ala pro-Brexit dei “Tories”. Il candidato più probabile alla sua successione sembra essere l’ex ministro degli Esteri, Boris Johnson. Per far scattare un voto per la leadership conservatrice è necessario che almeno 48 deputati indirizzino una “lettera di sfiducia” al presidente di uno speciale comitato del partito. Secondo il Times di Londra, la conta sarebbe arrivata lunedì a 26, ma alcuni membri del parlamento potrebbero avere già agito dietro le quinte e altri ancora potrebbero alimentare l’onda anti-May con il precipitare della crisi politica.

 

Sul fronte laburista, l’ipotesi circolata di recente di una mozione di sfiducia contro il governo May è stata per il momento messa da parte da Corbyn e dai vertici del principale partito di opposizione, nonostante le pressioni di decine di deputati. Secondo alcuni, questa scelta permetterebbe al primo ministro di prendere fiato e di continuare a negoziare con le varie anime del suo partito attorno al nodo Brexit.

 

Corbyn, d’altra parte, si ritrova anch’egli in una situazione delicata, dovendo mediare tra la posizione ufficiale della leadership del partito, favorevole all’uscita “morbida” dall’UE, e i crescenti sentimenti anti-Brexit, promossi in primo luogo da determinate sezioni dell’economia e della finanza britanniche.

 

La sua cautela ha lasciato così in buona parte l’iniziativa nelle mani degli europeisti dell’ala “blairita” del partito. Questi ultimi vedono anch’essi tutt’altro che positivamente un’elezione anticipata che Corbyn potrebbe vincere e puntano piuttosto a rinegoziare un accordo con Bruxelles che scongiuri una Brexit senza paracadute o a indire un nuovo referendum nella speranza di un voto opposto a quello del 2016.

 

Con la May in Europa, intanto, il parlamento di Londra ha tenuto martedì un dibattito di emergenza, i cui esiti sono comunque non vincolanti per il governo. Per giovedì, invece, è stato convocato un consiglio europeo sulla Brexit, nel quale potrebbero riemergere i malumori crescenti e già manifestati apertamente nei giorni scorsi dai leader UE impegnati nelle trattative con Downing Street.

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