La decisione, annunciata mercoledì dal presidente Trump, di ritirare i duemila soldati americani stanziati illegalmente in Siria ha scatenato all’istante una valanga di critiche e durissime condanne sia sul fronte domestico sia tra i governi alleati degli Stati Uniti. Il panico innescato a Washington da una notizia arrivata apparentemente a sorpresa preannuncia perciò un ulteriore inasprimento dello scontro interno alla classe dirigente americana.

 

 

La mossa del presidente repubblicano, giustificata con l’ottenimento di una vittoria irreversibile contro lo Stato Islamico (ISIS), oltre a non segnare il disimpegno completo degli USA dal conflitto siriano, sembra essere però la risposta più ovvia a un dilemma strategico che nelle ultime settimane si stava complicando seriamente per la Casa Bianca.

 

Gran parte dei commentatori ha collegato l’ordine di Trump alla necessità di evitare uno scontro con la Turchia, come confermerebbe una conversazione telefonica di venerdì scorso tra il presidente americano e Erdogan. Ankara aveva di recente minacciato di lanciare una nuova offensiva in territorio siriano, questa volta a nord dell’Eufrate per schiacciare le milizie curde dell’YPG, considerate dalle autorità turche come un’organizzazione terroristica legata ai separatisti del PKK.

 

L’YPG, com’è noto, è la componente più importante delle cosiddette Forze Democratiche Siriane (SDF), una delle formazioni della galassia dell’opposizione armata al regime di Assad e partner principale degli Stati Uniti nel teatro di guerra siriano. La cooperazione tra le forze speciali USA e i guerriglieri curdi rischiava quindi di provocare un conflitto diretto tra Ankara e Washington, in caso di un intervento militare della Turchia, con conseguenze potenzialmente esplosive sia sull’alleanza già scricchiolante tra i due paesi sia sull’unità e il futuro della stessa NATO.

 

La decisione di Trump, perciò, può essere letta anche come un via libera a Erdogan per agire contro i curdi siriani, il cui futuro potrebbe di conseguenza prevedere una qualche riconciliazione con il governo di Damasco, legittimamente intenzionato a ristabilire il proprio controllo su tutto il territorio del paese.

 

Fermo restando che la presenza americana nel nord-est della Siria non ha mai avuto alcuna giustificazione legale, il possibile ritiro del contingente USA nelle prossime settimane è visto con estrema inquietudine dagli ambienti “neo-con” dentro e fuori l’amministrazione Trump. Il loro progetto, come ha spiegato un’analisi del blog MoonOfAlabama, era infatti quello di rimanere nella regione per un periodo di tempo indeterminato attraverso la “creazione di un’entità curda finanziata con i proventi dei pozzi petroliferi” sottratti al controllo di Damasco.

 

Questa sorta di protettorato americano, difeso da un’ipotetica milizia curda di 40 mila uomini che Washington avrebbe dovuto addestrare, sarebbe servito da base operativa per le manovre volte a contrastare il consolidamento dell’autorità del governo di Damasco, ma anche e soprattutto l’espansione della presenza iraniana in Siria. In prospettiva, inoltre, avrebbe potuto riemergere e trovare nuovo slancio anche il piano per rovesciare il regime di Assad, di fatto naufragato dopo l’intervento della Russia.

 

Che la fine dell’occupazione USA abbia in buona parte a che vedere con i rapporti tra Washington e Ankara è testimoniato anche da altri sviluppi recenti che indicano l’esistenza di un possibile accordo stipulato da Trump e Erdogan. Ad esempio, da giorni si rincorrono le voci, tra conferme e smentite, che la Casa Bianca potrebbe considerare l’estradizione verso la Turchia del predicatore Fethullah Gülen, da decenni in auto-esilio negli Stati Uniti e accusato da Erdogan di avere orchestrato il fallito golpe ai suoi danni nel luglio del 2016.

 

Proprio mercoledì, poi, il dipartimento di Stato americano ha comunicato al Congresso di avere approvato la vendita alla Turchia di missili Patriot per un valore di 3,5 miliardi di dollari. Il trasferimento di queste armi era stato a lungo in dubbio a causa dell’opposizione di Washington all’acquisto da parte di Ankara del sistema anti-missilistico russo S-400, peraltro finalizzato nei giorni scorsi.

 

Con la scelta di ritirare i circa duemila soldati in Siria nord-orientale, Trump sembra avere dunque optato per la normalizzazione dei rapporti con un alleato NATO cruciale. A spingere la Casa Bianca in questo senso è stato in primo luogo il riorientamento strategico della Turchia che ha portato Erdogan a costruire una partnership sempre più solida con la Russia di Putin. Più in generale, soprattutto dopo il mancato golpe del 2016, Ankara ha iniziato a guardare con estremo interesse alle dinamiche multipolari in atto a livello globale e osteggiate da Washington, mentre in ambito regionale ha continuato a coltivare relazioni cordiali con l’Iran e ha assunto un ruolo sempre più decisivo nella crisi siriana.

 

Quella che appare ancora incerta è la nuova strategia degli Stati Uniti in Siria. Per cominciare, Trump dovrà fare i conti con un’opposizione interna formidabile, soprattutto negli ambienti militari e nell’apparato della “sicurezza nazionale”, e che già in passato ha fatto enormi pressioni per costringere la Casa Bianca a ritornare sui propri passi, tra cui in più di un’occasione proprio in merito alla Siria.

 

Il Pentagono, ad esempio, dopo la notizia del ritiro delle truppe, pubblicata per primo dal Wall Street Journal, e la conferma di Trump tramite il consueto “tweet”, ha emesso una dichiarazione parzialmente contrastante quella del presidente, affermando che la guerra all’ISIS non è stata ancora vinta. Nei commenti critici della decisione del presidente si è fatto puntualmente riferimento proprio alla necessità di continuare a tenere alta la guardia contro lo Stato Islamico, il quale avrebbe ancora qualche decina di migliaia di uomini tra Siria e Iraq.

 

Allo stesso tempo, in molti non hanno nemmeno cercato di nascondere le vere ragioni dell’occupazione illegale della Siria, vale a dire la competizione strategica con l’Iran e il fronte sciita anti-americano in Medio Oriente. D’altra parte, per quanto la guerra all’ISIS continui a trovare ampio spazio nelle dichiarazioni ufficiali, il fondamentalismo islamico in Siria non è stato annichilito dagli Stati Uniti e dai loro alleati, quanto dalle operazioni di Russia, Iran, Hebzollah e delle milizie sciite irachene. Anzi, un’analisi della situazione sul campo mostra come la presenza americana in Siria nord-orientale abbia determinato solo minimi spostamenti del fronte di guerra con l’ISIS, evidentemente colpito in maniera poco più che simbolica e mantenuto piuttosto in vita perché riutilizzabile in futuro per gli obiettivi strategici di Washington.

 

Per mettere nella giusta prospettiva la decisione di mercoledì di Trump è necessario inoltre ricordare che gli Stati Uniti conservano altri contingenti militari in Siria che, per il momento, non sembrano destinati a essere smobilitati. Truppe americane restano cioè a Raqqa, la ex capitale del “califfato”, così come nella base di al-Tanf, al confine tra Siria e Iraq. L’occupazione di queste aree potrebbe in effetti finire se l’annuncio di questa settimana dovesse anticipare realmente un disimpegno USA dalla Siria, ma, se la permanenza dei militari americani fosse invece confermata, ciò significherebbe tutt’al più un ridimensionamento degli obiettivi finora perseguiti con le milizie curde nel nord-est del paese.

 

La notizia della decisione di Trump è stata in ogni caso salutata positivamente da più parti, come ad esempio dalla Russia, dove il governo ha ipotizzato la creazione di un clima più favorevole al processo diplomatico in corso. In realtà, l’ordine di Trump ai vertici militari non sembra essere ancora definitivo e in molti hanno assicurato che gli ambienti ostili al ritiro dei soldati faranno di tutto per convincere il presidente a fare marcia indietro.

 

Di certo, i conflitti intestini al governo americano, già infiammati dall’aggravarsi delle vicende legate al “Russiagate”, finiranno per intensificarsi, mentre difficilmente le inclinazioni anti-russe o anti-iraniane degli Stati Uniti risulteranno attenuate. L’escalation delle tensioni generata dall’annuncio di mercoledì, in sostanza, potrebbe determinare addirittura un peggioramento del clima internazionale. D’altra parte, sono recenti se non recentissime le dichiarazioni minacciose di alcuni membri dell’amministrazione Trump sulle prospettive dell’impegno americano in Siria. Prospettive che, in un modo o nell’altro, cercheranno di non essere disattese nonostante il recente ordine del presidente.

 

Il consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton, nel mese di ottobre aveva assicurato che Washington non intendeva abbandonare la Siria finché l’Iran avrebbe continuato a esercitare la propria influenza su questo paese. Infine, l’inviato speciale USA per la Siria, Brett McGurk, solo la settimana scorsa aveva respinto l’ipotesi di un ritiro anche in caso di sconfitta dell’ISIS. I militari americani, cioè, sarebbero dovuti rimanere sul terreno in Siria finché non sarebbe stata garantita la stabilità delle aree occupate.

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