Grazie ai “negoziati produttivi” registrati tra Washington e Pechino, il presidente americano Trump ha sospeso in maniera indefinita l’entrata in vigore dei dazi aggiuntivi minacciati sulle merci di importazione cinese e inizialmente prevista per il primo marzo prossimo. Nonostante i progressi ostentati da entrambe le parti, le posizioni sembrano rimanere lontane su molte questioni relative alla “guerra commerciale” in corso e, oltre che dalle concessioni della Cina, l’esito dello scontro dipenderà anche e soprattutto dalle dinamiche interne all’amministrazione Trump.

 

Il presidente ha scritto su Twitter nel fine settimana che dei passi avanti sarebbero stati fatti in particolare sulle “questioni strutturali” sollevate dalla delegazione USA, come quelle del furto della “proprietà intellettuale” da parte cinese ai danni delle compagnie americane e del trasferimento forzato di tecnologia a cui queste ultime sarebbero sottoposte per poter operare in Cina. I termini di un’ipotetica intesa coprirebbero inoltre gli squilibri commerciali, con la Cina disposta ad aumentare sensibilmente le importazioni di beni e servizi dagli Stati Uniti.

 

 

Trump ha poi assicurato che, in caso di “ulteriori progressi” nei colloqui con Pechino, a breve verrà pianificato un vertice tra egli stesso e il presidente cinese, Xi Jinping, con ogni probabilità nella sua residenza in Florida, per suggellare un accordo definitivo tra i due paesi. Proprio un’intesa siglata al G-20 di Buenos Aires tra i due leader lo scorso autunno aveva portato a una tregua di tre mesi, al termine della quale gli USA minacciavano di alzare dal 10% al 25% le tariffe doganali su una quota di importazioni cinesi pari a 200 miliardi di dollari.

 

Informazioni concrete sul contenuto della bozza di accordo presumibilmente raggiunto non sono per ora emerse e le stesse parti non avrebbero ancora sottoscritto alcun documento ufficiale né tantomeno vincolante. L’unico impegno concreto sembra essere relativo alle fluttuazioni della moneta cinese. Pechino avrebbe cioè acconsentito a non svalutare artificialmente lo yuan, così da sostenere le proprie esportazioni e attenuare il contraccolpo dei nuovi dazi americani.

 

Da tempo, gli Stati Uniti valutano l’ipotesi di dichiarare il governo cinese “manipolatore di valuta”, visto che utilizzerebbe questo sistema per rendere più competitive le merci da esportare. Le opinioni degli esperti in proposito sono tuttavia discordanti e in molti ritengono che le pratiche di Pechino in questo senso siano tutt’al più limitate e non più gravi di quelle messe in atto anche da altri paesi. La questione della valuta è comunque importante ai fini del riequilibrio della bilancia commerciale americana nei confronti della Cina. Essa non è tuttavia il fattore principale di un confronto che riguarda piuttosto la competizione strategica a tutto campo tra la prima potenza planetaria e quella che rappresenta la principale minaccia alla sua declinante supremazia.

 

Proprio sulla necessità di continuare a esercitare pressioni su Pechino per ostacolare i piani di sviluppo tecnologico e industriale si sta dividendo la classe dirigente americana e posizioni diverse si registrano all’interno della stessa amministrazione Trump. La Casa Bianca si ritrova sostanzialmente di fronte a un dilemma di difficile soluzione. La decisione di Trump di prolungare la scadenza dell’ultimatum imposto alla Cina e di giudicare positivamente gli sviluppi delle trattative è in larga misura dettata dalla necessità di mandare un segnale ai mercati e al mondo degli affari in generale, i quali negli ultimi mesi hanno risentito negativamente dell’impatto di una possibile escalation della guerra commerciale alimentata da Washington.

 

Questo parziale passo indietro preoccupa però allo stesso tempo i “falchi” dentro e fuori l’amministrazione Trump, coloro cioè che temono una mossa affrettata del presidente verso un accordo senza avere risolto i nodi cruciali che fanno della Cina una minaccia alla posizione dominante degli Stati Uniti in ambito economico e militare. Negli ambienti della destra repubblicana sono infatti già arrivate critiche aperte all’ipotesi di un possibile accordo al ribasso con Pechino.

 

In ballo ci sono in primo luogo considerazioni di carattere elettorale. Un ammorbidimento della linea sul confronto con la Cina potrebbe scoraggiare la base elettorale più estrema del presidente in vista del voto nel 2020. Ancora più importanti sono però le implicazioni strategiche di un’eventuale rinuncia ad andare fino in fondo nel tentativo di sottomettere Pechino agli interessi di Washington e, in definitiva, di costringere la leadership cinese ad abbandonare i propri obiettivi di crescita e sviluppo.

 

La fazione del governo USA che sostiene la linea dura contro Pechino fa capo ai due principali consiglieri della Casa Bianca per il Commercio, i super-falchi anti-cinesi Robert Lighthizer e Peter Navarro. Su posizioni più moderate e maggiormente disponibili a siglare un accordo sono invece il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, e il consigliere di Trump per l’Economia, Larry Kudlow. Questi ultimi sono espressione degli interessi di corporation e grandi banche di Wall Street, preoccupate per le pessime prospettive di business derivanti da un nuovo peggioramento delle relazioni tra Washington e Pechino.

 

I disaccordi tra le due correnti, con il presidente diviso tra l’una e l’altra, sono emersi pubblicamente in una conferenza stampa di qualche giorno fa alla Casa Bianca. Un battibecco imbarazzante è scoppiato dopo che Mnuchin aveva fatto riferimento ai “memorandum d’intesa” sottoscritti con la delegazione cinese e che il numero uno del Tesoro USA descriveva come “vincolanti”. Trump lo aveva allora smentito, sostenendo che questi documenti non costituiscono un impegno definitivo e a lungo termine. Nella discussione di fronte alla stampa si era inserito anche Lighthizer, il quale era sembrato prima appoggiare Mnuchin per poi desistere e assecondare il presidente.

 

In attesa del prossimo round di colloqui, la disputa sulla guerra commerciale con la Cina si sposterà questa settimana al Congresso, dove mercoledì è in programma un’audizione dello stesso Lighthizer. È probabile che qui i rappresentanti di entrambi i partiti chiederanno rassicurazioni sulla volontà della Casa Bianca di ottenere concessioni significative da Pechino sulle cosiddette “questioni strutturali”, assieme alla garanzia che ogni iniziativa cinese sia accompagnata da un meccanismo che ne garantisca l’effettiva implementazione.

 

Le pressioni su Trump si moltiplicheranno così ulteriormente, ma è improbabile, per non dire impossibile, che le tattiche aggressive possano portare ai risultati sperati da Washington. Tanto più che le trattative su questo fronte si sovrappongono ai negoziati tra USA e Corea del Nord. Sempre questa settimana, Trump incontrerà in Vietnam per la seconda volta Kim Jong-un nel quadro di un processo diplomatico che vede proprio la Cina svolgere un ruolo inevitabilmente cruciale.

 

Qualunque sarà l’approccio scelto dagli Stati Uniti, è evidente che le posizioni cinesi non potranno essere trascurate, a meno di mettere in preventivo un fallimento delle trattative e il precipitare dello scontro tra le due super-potenze. A chiarire la fermezza di Pechino su questo punto è stato, tra gli altri, un recente editoriale pubblicato dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua dopo la diffusione della notizia sul prolungamento della “tregua commerciale”. Per l’autore del fondo, i due paesi “non hanno alternative alla collaborazione per il bene di entrambi”, ma, allo stesso tempo devono essere “pronti al peggio”, visto anche che la Cina, per “realizzare i suoi piani di sviluppo a lungo termine”, non può in nessun modo prescindere dalla “salvaguardia dei propri interessi-chiave”.

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