L’atteso ritorno alla democrazia formale della Thailandia si è trasformato per il momento in una delicata situazione di stallo nella quale le due principali forze politiche del paese asiatico si stanno confrontando per aggiudicarsi la possibilità di formare un nuovo governo. Il clima sempre più teso che si registra in queste ore è il risultato di un’elezione, concessa dalla giunta militare al potere a distanza di cinque anni dal colpo di stato, segnata da irregolarità e manipolazioni varie, nonché da un quadro costituzionale creato ad hoc per favorire le forze armate, gli ambienti della casa regnante e l’establishment tradizionale thailandese.

 

 

Le incertezze che stanno agitando questo paese dopo il voto di domenica scorsa sono state alimentate da una gestione quanto meno discutibile del conteggio e della diffusione dei risultati. La Commissione Elettorale aveva inizialmente annunciato la pubblicazione dell’esito quasi definitivo per il pomeriggio di lunedì, per poi ritardare il tutto di qualche ora. Durante l’attesa, i numeri a livello nazionale e locale sono apparsi spesso contradditori e suscettibili di cambiamenti significativi e sospetti, come il dato dell’affluenza, dapprima stimato attorno all’80% e poi ridimensionato al 64%.

 

Quando, alla fine, la Commissione ha rivelato i primi dati ufficiali, basati sul 95% delle schede conteggiate, la complessità del sistema elettorale voluto dal regime militare di Bangkok ha contribuito a complicare ulteriormente il quadro. Il partito Palang Pracharat (PPRP) della giunta militare del primo ministro, Prayuth Chan-ocha, sembra avere infatti conquistato il maggior numero di consensi, attorno ai 7,9 milioni, ma questa performance, per molti decisamente inaspettata, non si è tradotta in un corrispondente numero di seggi nella camera bassa del parlamento thailandese.

 

La maggioranza relativa dei seggi è stata assegnata al partito Pheu Thai, collegato anche se in maniera indiretta all’ex primo ministro in esilio e principale forza dell’opposizione, Thaksin Shinawatra. Magnate delle telecomunicazioni e con interessi economici in vari settori, Thaksin e i soggetti politici a lui legati avevano ottenuto successi elettorali in tutti gli appuntamenti con le urne a partire dal 2001, grazie soprattutto a politiche populiste e moderatamente progressiste in ambito economico e sociale. In ogni occasione, i governi in seguito creati sono stati puntualmente rovesciati da colpi di stato, procedimenti giudiziari e scioglimenti di svariati partiti vicini all’ex premier. Lo stesso Thaksin aveva subito una condanna per corruzione e lasciato il suo paese nel 2008 per evitare il carcere. Il governo della sorella, Yingluck Shinawatra, era stato a sua volta deposto da un golpe nel 2014, seguito all’intervento dei militari giustificato con la necessità di riportare l’ordine in un paese paralizzato da mesi di manifestazioni di piazza contro il governo.

 

La giunta al potere e il primo ministro Prayuth avevano fatto poi approvare una nuova Costituzione nel 2017, grazie alla quale è stata tra l’altro istituzionalizzata la posizione di fatto dominante dei militare sulla vita politica thailandese. Ciò ha influito sull’esito del voto del fine settimana o, meglio, sull’incertezza degli equilibri che ne potrebbero uscire. Infatti, in qualsiasi modo verranno ripartiti i 500 seggi della camera bassa del parlamento di Bangkok, un peso determinante nella scelta del prossimo governo sarà svolta dai 250 membri del Senato, i quali non sono eletti bensì nominati dai militari. Se, come previsto, i nuovi senatori che si insedieranno a fine aprile appoggeranno il PPRP, il partito Pheu Thai ed eventuali partner di coalizione saranno costretti a mettere assieme una maggioranza di ben 376 seggi per poter governare.

 

Visti i risultati parziali finora diramati, questo obiettivo appare impossibile, così che il primo ministro uscente Prayuth e la giunta militare, a cui basterebbero appena 126 seggi nella camera bassa, sembrano nettamente favoriti per rimanere al potere, salvo sviluppi politici imprevisti. Secondo la Commissione Elettorale, il Pheu Thai legato al clan Shinawatra si sarebbe già aggiudicato circa 140 seggi, mentre il PPRP poco meno di 100. Per provare a creare un esecutivo, entrambi hanno dunque bisogno di alleati, alcuni dei quali sono orientati abbastanza chiaramente verso l’uno o l’altro schieramento.

 

Una delle relative sorprese del voto è il partito Verso il Futuro dell’imprenditore miliardario Thanathorn Juangroongruangkit, in grado di sfiorare il 9% grazie a un programma politico di rinnovamento e alla campagna anti-regime condotta nei mesi scorsi. Questo partito ha raccolto consensi soprattutto tra gli elettori più giovani nelle aree metropolitane thailandesi ed è visto come un possibile alleato naturale del fronte pro-Thaksin. Secondo alcuni, questo partito condivide con il Pheu Thai anche l’appoggio non solo morale dell’Occidente e, in particolare, del dipartimento di Stato americano e delle agenzie internazionali di aiuti che operano al servizio del governo di Washington. Sul partito Verso il Futuro pende però la minaccia di scioglimento, derivante da un procedimento aperto in seguito alle accuse rivolte dai suoi leader al partito della giunta militare per avere “rubato” candidati di altri partiti a suon di denaro.

 

Gli altri due principali partiti ad avere conquistato seggi sono quello Democratico, di orientamento conservatore ed espressione della borghesia e di determinati poteri forti soprattutto della Thailandia meridionale, e il Bhumjai Thai, considerato per lo più di tendenze pragmatiche e guidato da un altro businessman miliardario. I democratici rifiutano ufficialmente alleanze di governo, ma in molti ritengono che potrebbero alla fine appoggiare un nuovo governo dei militari. Il Bhumjai Thai sembra invece aperto a qualsiasi negoziato, ma alcuni suoi esponenti di spicco sono vicini alla casa reale, mentre il suo leader, a capo di una compagnia che opera nel settore delle costruzioni, ha forti interessi legati ai progetti infrastrutturali promossi dall’attuale regime. Rivelazioni giornalistiche hanno ad ogni modo riportato la notizia che il Pheu Thai sarebbe disposto addirittura a cedere la carica di premier e il controllo dei principali ministeri al Bhumjai Thai se questo partito dovesse entrare in un patto di governo anti-giunta.

 

Gli esatti equilibri di potere prodotti dal voto dovranno essere comunque aggiornati con l’assegnazione, prevista per venerdì prossimo, di 150 dei 500 seggi totali, distribuiti col metodo proporzionale, a differenza degli altri 350 stabiliti con un sistema maggioritario e ai quali si riferiscono i dati già diffusi dalla Commissione Elettorale. I risultati definitivi, poi, saranno ratificati solo il 9 maggio prossimo, dopo cioè l’incoronazione ufficiale del sovrano Maha Vajiralongkorn.

 

Proprio il re thailandese, succeduto al padre Bhumibol Adulyadej, deceduto nel 2016, ha svolto un ruolo per molti decisivo nell’orientare le sorti del voto. Nel mese di febbraio aveva ad esempio bocciato pubblicamente la candidatura della sorella, principessa Ubolratana Rajakanya, per un altro partito collegato a Thaksin. La presa di posizione del sovrano aveva favorito lo scioglimento di questo stesso partito da parte della Commissione Elettorale. Poco prima del voto, inoltre, il re Vajiralongkorn aveva anche eccezionalmente invitato gli elettori thailandesi a scegliere le “persone giuste”, riferendosi ai partiti legati alle istituzioni tradizionali thailandesi, a cominciare dal PPRP della giunta militare.

 

Già da lunedì, sia il partito del primo ministro Prayuth sia i leader del Pheu Thai hanno rivendicato la responsabilità di aprire i negoziati per la formazione del nuovo governo, citando il mandato che avrebbero ottenuto grazie rispettivamente al maggior numero di voti e di seggi conquistati. Se i militari possono contare sul più che probabile sostegno del nuovo Senato, un possibile mandato di Prayuth potrebbe non trovare i voti necessari per la fiducia alla camera bassa, innescando così ulteriori tensioni politiche. Il Pheu Thai, da parte sua, non sembra intenzionato a cedere terreno ai militari dopo un risultato elettorale forse al di sotto delle aspettative. L’ex premier Thaksin ha scritto un commento per il New York Times martedì nel quale ha attaccato frontalmente la giunta militare e la Commissione Elettorale, sollevando pesanti accuse di brogli che avrebbero avuto luogo durante le operazioni di voto.

 

Le prime elezioni “democratiche” dopo il golpe del 2014 sembrano quindi avere riproposto le divisioni che per oltre un decennio hanno caratterizzato la scena politica e sociale in Thailandia. Da un lato, la borghesia urbana, l’apparato burocratico e militare, gli ambienti reali e la ristrettissima classe di super-ricchi del paese si sono schierati a favore della giunta militare e, in parte, del Partito Democratico che nel recente passato era stato il principale punto di riferimento di questi interessi.

 

Dall’altro, la galassia dei partiti pro-Thaksin ha intercettato ancora una volta buona parte del consenso delle classi più disagiate nelle città thailandesi e delle aree rurali soprattutto nel nord del paese, ovvero un bacino elettorale da sempre escluso dai circuiti del potere e dalle decisioni prese dalle élites di Bangkok. Allo stesso tempo, però, l’appeal del clan Shinawatra per questi settori della società è sembrato attenuarsi almeno in parte e per una serie di fattori, non da ultimi i timori di un ritorno al caos degli anni scorsi e l’implementazione di riforme più o meno modeste a favore dei redditi più bassi da parte della stessa giunta militare.

 

I fatti relativi alla Thailandia non sono confinati in ogni caso solo a questo paese, ma riguardano anche gli scenari regionali e non solo. La posizione strategica e il peso economico fanno infatti della Thailandia un oggetto di estremo interesse per potenze come Cina e Stati Uniti. Anche se tradizionalmente alleata di Washington, la classe dirigente thailandese ha operato una parziale svolta strategica negli ultimi anni. Soprattutto il regime militare del premier Prayuth è stato protagonista di una sorta di riequilibrio delle relazioni del paese, concretizzato, tra l’altro, in una diversificazione delle forniture militari, in precedenza quasi monopolizzate dai produttori americani, e nell’adesione ai piani di sviluppo economico-infrastrutturali cinesi. Sul fronte opposto, gli ambienti vicini alla famiglia Shinawatra continuano invece a essere considerati l’opzione preferita dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

 

Per tutte queste ragioni, l’eventuale persistere dell’incertezza politica e una possibile escalation delle tensioni nelle prossime settimane potrebbero proiettare ancora di più le vicende thailandesi al centro dell’attenzione delle principali potenze internazionali, per il momento rimaste alla finestra in attesa di indicazioni più chiare provenienti dal paese del sud-est asiatico.

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