Il governo iraniano ha annunciato mercoledì l’attivazione di un meccanismo, previsto dall’accordo sul nucleare di Vienna del 2015 (JCPOA), che permette alla Repubblica Islamica di sospendere l’implementazione di alcuni termini previsti dallo stesso trattato. Anche se l’accordo resta per il momento in piedi, la decisione di Teheran ne prefigura chiaramente la fine in tempi brevi. Le responsabilità del sempre più probabile fallimento dell’intesa non sono tuttavia da attribuire all’Iran, bensì all’amministrazione Trump, che ha lavorato fin dall’inizio per far naufragare il processo diplomatico, e in seconda battuta agli alleati europei di Washington, incapaci di opporre una seria resistenza alle manovre americane e di formulare una politica estera indipendente coerentemente con i propri interessi strategici.

 

 

La notizia che circolava già da qualche giorno è diventata ufficiale nella mattinata di mercoledì, con la notifica da parte del presidente iraniano, Hassan Rouhani, ai firmatari del JCPOA che ancora nel fanno parte (Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Cina) delle intenzioni del suo paese. Nei prossimi 60 giorni, Teheran procederà con l’accumulo di acqua pesante e uranio arricchito prodotti sul proprio territorio, sforando i limiti consentiti dall’accordo di Vienna.

 

Se al termine di questo periodo, i governi di Parigi, Londra e Berlino saranno stati in grado di creare le condizioni necessarie a neutralizzare le sanzioni americane, l’Iran tornerà al pieno rispetto dell’accordo. In caso contrario, i provvedimenti annunciati oggi diventeranno definitivi e se, dopo altri due mesi, ulteriori negoziati non avranno dato frutti, Teheran adotterà nuove misure non meglio specificate, con ogni probabilità per abbandonare del tutto il JCPOA.

 

La sospensione di una parte del trattato di Vienna sarà senza il minimo dubbio sfruttata dagli USA per accusare la Repubblica Islamica di non avere mai avuto intenzione di rispettarlo, giustificando così la decisione del presidente Trump del maggio 2018 di uscire unilateralmente dall’intesa sul nucleare. In realtà, l’azione intrapresa dalle autorità iraniane mercoledì è la logica e inevitabile conseguenza della campagna americana. L’intenzione della Casa Bianca è stata cioè sempre quella di costringere Teheran a “violare” l’accordo, in modo da disporre di una scusa per accelerare l’escalation di minacce e provvedimenti punitivi contro il paese mediorientale.

 

Di fatto, l’Iran si è ritrovato in una situazione insostenibile e fuori da ogni logica, visto che, alla luce della reimposizione delle sanzioni americane e dell’impossibilità dell’Europa di bypassarle, il continuo rispetto integrale del JCPOA non avrebbe più prodotto alcun beneficio. L’incertezza di Francia, Gran Bretagna e Germania sulla possibile creazione di uno strumento finanziario per garantire i pagamenti delle transazioni commerciali con Teheran, senza incorrere nelle sanzioni USA, ha avuto un peso determinante sulle decisioni iraniane.

 

L’altro fattore decisivo è stato poi il mancato prolungamento da parte americana di due “deroghe” previste dal JCPOA. Una consentiva a Teheran di trasferire in Oman l’acqua pesante prodotta nella struttura di Arak una volta superata la quantità di 300 tonnellate. L’altra di inviare in Russia la quota eccedente i 300 kg. di uranio a basso arricchimento proveniente da Natanz. Essendo da escludere la chiusura dei due impianti, ovvero una capitolazione ai diktat degli USA, lo stop forzato all’esportazione di questo materiale determinerà un accumulo entro i confini iraniani che porterà all’inevitabile superamento dei tetti fissati dall’accordo di Vienna e, quindi, alla violazione dei termini da esso previsti.

 

Il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica, Mohammad Javad Zarif, ha comunque assicurato sempre mercoledì che il suo paese per il momento non abbandonerà il JCPOA e che le condizioni a cui non intende più sottostare sono di natura “volontaria”. Il diplomatico iraniano, in visita mercoledì a Mosca, ha poi collegato la recente decisione all’incapacità “dell’Unione Europea e di altri [paesi] di resistere alle pressioni americane”.

 

La mossa di Teheran appare non solo legittima, ma razionale e ben congegnata, anche se non servirà a evitare il precipitare degli eventi. L’Iran, in definitiva, passa la palla nel campo dei governi europei, i quali avevano promesso di tenere vita l’intesa sul nucleare nonostante le decisioni e le minacce americane. In assenza di sviluppi, ad ogni modo, la Repubblica Islamica avrà tutte le ragioni per abbandonare il JCPOA, forte anche delle ripetute certificazioni da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) del rispetto delle condizioni stabilite nel 2015 a Vienna.

 

Che l’Iran non si aspetti nulla di concreto da un’Europea debolissima è fuori discussione. L’intenzione sembra essere piuttosto quella di smascherare il bluff di Bruxelles. Infatti, la primissima reazione europea alle notizie provenienti mercoledì da Teheran non ha dato alcun segnale circa un possibile sforzo diplomatico né di una linea indipendente da perseguire, ma ha mostrato piuttosto la disponibilità ad assecondare la linea di Washington.

 

Una fonte del governo francese ha cioè affermato che la violazione tecnica del JCPOA da parte dell’Iran, sia pure obbligata e indotta da quella iniziale degli Stati Uniti, costringerà anche l’Europa a reimporre le sanzioni che erano in vigore prima della firma sull’accordo. Se così fosse, il processo di smantellamento dell’intesa sul nucleare iraniano promosso dalla Casa Bianca sarebbe completato, con riflessi pesantissimi sulla stabilità già più che precaria del Medio Oriente, ma anche sull’autonomia strategica dell’Europa.

 

Sui giornali occidentali si sta discutendo diffusamente delle pressioni degli ambienti ultra-conservatori iraniani sul presidente Rouhani per abbandonare il JCPOA di fronte alla rinnovata offensiva di Washington. Se la classe dirigente di Teheran è evidentemente divisa fin dal 2015 sull’opportunità di abbracciare il processo diplomatico con l’Occidente e, soprattutto, con gli USA, la vera causa dell’avvicinarsi del punto di rottura dipende in realtà unicamente dal ritorno dei “neo-con” alla Casa Bianca e dalla linea dura che essi hanno imposto a Trump nell’approccio all’Iran.

 

La crisi conclamata dell’accordo di Vienna si inserisce d’altra parte in un pericoloso crescendo di minacce da parte degli Stati Uniti che fanno intravedere il formarsi di scenari molto simili a quelli che precedettero l’invasione dell’Iraq nel 2003. Se a un’analisi razionale dei fatti, una guerra tra USA e Iran appare difficile da immaginare, il delirio dell’amministrazione Trump e la disperazione con cui essa sta cercando di contrastare il proprio declino internazionale e la crescita dei rivali strategici non consentono di escludere futuri eventi catastrofici, magari innescati da un incidente casuale o studiato a tavolino.

 

In questa direzione è andata recentemente una serie di eventi e di dichiarazioni di esponenti del governo americano, responsabili dell’aumento delle tensioni sul fronte iraniano. Il “super-falco” John Bolton, Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, qualche giorno fa aveva annunciato l’accelerazione dell’arrivo nel Golfo Persico della portaerei Abraham Lincoln dopo l’emergere di fantasiose informazioni di intelligence che mettevano in guardia da possibili attacchi contro i militari americani in Medio Oriente da parte della Repubblica Islamica o di gruppi e milizie da essa sostenuti.

 

Sempre verso il Golfo si starebbero dirigendo anche bombardieri B-52 americani, pronti a intervenire in caso di conflitto o, per meglio dire, di un evento scatenato da una provocazione di Washington. Queste iniziative si aggiungono a molte altre che hanno preso di mira l’Iran negli ultimi mesi. Per ricordare soltanto i fatti più recenti, il governo USA ha designato i Guardiani della Rivoluzione come organizzazione terroristica, ha allargato la rete delle sanzioni contro individui ed entità della Repubblica Islamica e, ai primi di maggio, ha cancellato ogni deroga fino ad allora concessa a una manciata di paesi per evitare misure punitive e continuare a importare il petrolio iraniano.

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