Pericolosi venti di guerra continuano a soffiare insistentemente sull’Iran a causa delle macchinazioni e delle ripetute provocazioni messe in atto dall’amministrazione Trump. In contemporanea con l’improvvisa visita a Bruxelles del segretario di Stato USA, Mike Pompeo, gli alleati americani nel Golfo Persico hanno sondato il terreno per la creazione di un casus belli utile a una possibile aggressione contro la Repubblica Islamica. A Washington, invece, sembrano fervere i preparativi per una possibile nuova guerra rovinosa in Medio Oriente.

 

Martedì, il New York Times ha riportato la notizia di una riunione segreta, avvenuta settimana scorsa, durante la quale il segretario alla Difesa, Patrick Shanahan, avrebbe presentato un piano bellico che prevede il dispiegamento fino a 120 mila uomini da parte degli Stati Uniti in caso di scontro con l’Iran. Ufficialmente, questa opzione si riferirebbe a uno scenario nel quale Teheran dovesse attaccare gli interessi americani in Medio Oriente, anche se in realtà il piano non ha nulla di difensivo.

 

 

A chiedere al Pentagono i piani di guerra è stato il “super-falco” John Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, e, secondo le stesse fonti del Times, non è da escludere che l’iniziativa sia esclusivamente di quest’ultimo o che lo stesso presidente sia stato tenuto all’oscuro dei dettagli delle operazioni allo studio.

 

All’interno del governo americano persistono profonde divisioni su una possibile avventura bellica a dir poco folle. Svariati esperti militari informati del piano dal New York Times hanno espresso sbalordimento a proposito del contingente militare che potrebbe essere impiegato. Il numero di soldati in questione si avvicinerebbe infatti a quello utilizzato per l’invasione dell’Iraq nel 2003 e implica un dispiegamento di forze e mezzi tali da prefigurare il coinvolgimento in un conflitto cruento e di lunga durata.

 

Sui media ufficiali e nelle stanze del potere USA si è intensificata da qualche tempo la campagna di aperta propaganda contro l’Iran. Questo paese deve cioè essere dipinto come una minaccia e sul punto di aggredire gli Stati Uniti o i loro alleati, in modo da preparare il terreno tra l’opinione pubblica americana per una prossima aggressione militare, esattamente come avvenne alla vigilia della guerra contro Saddam Hussein.

 

L’unica reale minaccia a ciò che resta della pace in Medio Oriente è rappresentata però proprio dagli Stati Uniti. Tutte le finte notizie, gli avvertimenti e le intimidazioni provenienti da Washington servono esclusivamente a fabbricare una qualsiasi provocazione che spinga gli USA e l’Iran verso la guerra.

 

L’esempio più recente di questa strategia è il polverone suscitato dagli attacchi che avrebbero subito questa settimana alcune petroliere appartenenti all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi nelle acque del Golfo Persico. La notizia ha presentato da subito aspetti poco chiari, come ad esempio la relativa modestia dei danni provocati alle imbarcazioni, e ha tutta l’aria di essere una “false flag” da sfruttare per far salire le pressioni sull’Iran, se non per giustificare un attacco militare. D’altra parte, l’operazione è avvenuta guarda caso pochi giorni dopo che i vertici militari USA avevano avvertito di possibili attacchi da parte iraniana contro navi commerciali nell’area del Golfo.

 

I governi teoricamente vittime di questo “attentato”, incluso quello degli Stati Uniti verso cui era diretto il greggio che avrebbero dovuto imbarcare le petroliere, non hanno incolpato esplicitamente Teheran, ma hanno lasciato intendere che l’indiziato numero uno è proprio la Repubblica Islamica. Indagini sarebbero in corso per fare chiarezza sull’accaduto e tutto fa pensare che le “prove” definitive potrebbero essere presentate nel momento in cui i preparativi saranno ultimati per attaccare l’Iran o, quanto meno, per passare alla fase successiva della campagna contro questo paese.

 

L’episodio delle petroliere avrebbe dovuto servire anche al segretario di Stato Pompeo per convincere i governi europei ad allinearsi alle posizioni americane sull’Iran. A Bruxelles, invece, l’ex direttore della CIA ha trovato a dir poco freddezza tra gli alleati. L’irrigidimento della Casa Bianca nei confronti dell’Iran non sembra infatti avere fatto cambiare idea all’Europa, da dove ufficialmente si cerca di tenere in vita l’accordo di Vienna sul nucleare (JCPOA), da cui Trump è uscito unilateralmente nel maggio 2018, e si chiede un abbassamento delle tensioni sull’asse Washington-Teheran.

 

Dal lato pratico, Parigi, Londra, Berlino e Bruxelles hanno però poche armi per resistere all’offensiva anti-iraniana dell’amministrazione Trump. Lo stesso strumento finanziario (INSTEX) messo in piedi per aggirare le sanzioni USA e continuare a fare limitati affari con Teheran stenta a diventare operativo, mentre l’ultimatum lanciato settimana scorsa dal presidente Rouhani, con lo scopo di invitare l’Europa ad adoperarsi per salvare l’accordo di Vienna, rischia seriamente di cadere nel vuoto.

 

Ciononostante, le dichiarazioni pubbliche dei leader europei dopo l’incontro con Pompeo hanno mostrato poca o nessuna simpatia per la linea USA. La responsabile della politica estera EU, Federica Mogherini, ha ad esempio invitato alla “massima moderazione” e a “evitare qualsiasi escalation militare”. L’Europa, ha aggiunto la Mogherini, “continua ad appoggiare totalmente l’accordo” di Vienna e si impegna a implementare “nelle prossime settimane” il già ricordato INSTEX per permettere la prosecuzione degli scambi commerciali tra l’Iran e il vecchio continente.

 

I piani di guerra appena rivelati dalla stampa americana si sommano comunque alle iniziative prese da Washington la scorsa settimana, volte ufficialmente a far fronte a minacce di attacchi provenienti da Teheran. Su questo punto aveva insistito il governo USA, amplificato dai media “mainstream”, utilizzando inverosimili informazioni di intelligence raccolte in Iran e che, secondo alcuni, arriverebbero diritte dai servizi segreti israeliani.

 

Tutto ciò era servito a giustificare il posizionamento di nuove forze militari in Medio Oriente, tra cui la portaerei USS Lincoln nel Mar Rosso e un bombardiere B-52s presso la base americana di Al Udeid, in Qatar. L’urgenza ostentata dal governo USA nell’annunciare queste misure era anch’essa diretta ad alimentare il senso di imminenza di un attacco contro l’Iran, com’è accaduto con la stessa visita improvvisata di Pompeo in Europa, avvenuta subito dopo la cancellazione di un già programmato viaggio a Mosca del segretario di Stato americano.

 

Gli Stati Uniti sembrano essere dunque sul punto di scatenare un’altra guerra criminale in Medio Oriente, dopo che il ritorno della galassia “neo-con” alla Casa Bianca con il presidente Trump ha riportato al centro della politica estera americana la questione del cambio di regime a Teheran. Anche se presentata come una risposta alle attività maligne della Repubblica Islamica in Medio Oriente, oppure talvolta alla volontà persistente di questo paese di ottenere armi nucleari, le ragioni dell’aggressione di Washington risiedono sempre in questioni di natura strategica e di controllo delle risorse energetiche della regione.

 

La determinazione con cui una parte della classe dirigente USA, quella con le tendenze più marcatamente criminali, continua a perseguire il miraggio della distruzione del regime di Teheran è anche aumentata con il progredire dei processi multipolari in atto su scala globale e il conseguente emergere di potenze rivali e progetti di integrazione economico-commerciali che minacciano la posizione internazionale americana.

 

In primo luogo, l’Iran ha rappresentato per quattro decenni il fulcro della resistenza anti-americana nella regione mediorientale ed euro-asiatica. Inoltre, questo paese è sempre più anche lo snodo cruciale degli ambiziosi piani infrastrutturali cinesi sulla rotta Asia-Europa. La Repubblica Islamica è infine il principale partner di Mosca in Medio Oriente, garantendo un appoggio determinante per gli interessi russi in termini di influenza sugli equilibri strategici e sulle politiche energetiche, con particolare riferimento, per quest’ultimo aspetto, alla crescente tendenza a rinunciare al dollaro nelle transazioni petrolifere.

 

Le prospettive catastrofiche di un conflitto aperto tra Stati Uniti e Iran non consentono di minimizzare il comportamento del governo americano, nonostante anche al suo interno continuino a esserci forti resistenze a un’escalation del confronto e a una soluzione militare. A fare da freno e assieme a costituire un pericolo ancora più grave in caso di guerra è la realtà di un paese come l’Iran che, a ben vedere, appare molto diversa da quella dell’Iraq di Saddam Hussein nel 2003.

 

La Repubblica Islamica è un paese di oltre 80 milioni di abitanti con una solida struttura industriale e militare e, malgrado la propaganda ufficiale in Occidente, non è oggi isolato, ma si posiziona al centro di una rete di alleanze di fatto o tendenzialmente ostili oppure poco gradite agli Stati Uniti. Oltre al tradizionale asse con Damasco e Beirut (fronte Hezbollah), l’Iran ha consolidato i propri rapporti politici, militari ed economici con Baghdad, così come mantiene corsie preferenziali con Turchia e addirittura Qatar.

 

Pakistan, Afghanistan e India sono altri paesi che per varie ragioni, e talvolta a fasi alterne, hanno relazioni cordiali con Teheran, ma, soprattutto e come ricordato in precedenza, è la partnership di natura strategica ed energetica con Russia e Cina a fare dell’Iran un attore tutt’altro che emarginato dalle vicende internazionali e che contribuisce perciò a rendere particolarmente rischiosa la nuova assurda scommessa bellica del governo di Washington.

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