Uno sciopero generale iniziato nella giornata di domenica ha rappresentato la risposta degli oppositori del regime militare sudanese alla violenta repressione scatenata la scorsa settimana nella capitale, Khartoum, e nelle principali altre città del paese africano. Il Sudan è sconvolto da massicce proteste di piazza dal dicembre del 2018 che avevano portato alla rimozione del presidente Omar al-Bashir, al potere da tre decenni. Al posto di quest’ultimo si era installata però una giunta militare che sta cercando ora di implementare una durissima contro-rivoluzione con l’appoggio di potenti alleati stranieri.

 

 

Nel tentativo di mantenere in vita la rivolta e tra gli sforzi per ottenere una transizione democratica, le opposizioni sudanesi hanno cercato di paralizzare Khartoum e non solo, provocando la chiusura di uffici ed esercizi commerciali e di azzerare i servizi pubblici, tra cui i voli in partenza dall’aeroporto internazionale della stessa capitale.

 

Le proteste sono coordinate ancora una volta dal sindacato dei Professionisti Sudanesi (APS), parte dell’alleanza di opposizione civile riunita nelle Forze per la Dichiarazione di Libertà e Cambiamento (FDLC). I suoi leader hanno invitato la popolazione a mettere in atto una “disobbedienza civile” contro il Consiglio Militare di Transizione (CMT), con l’obiettivo di costringere i militari a consegnare il potere a un governo civile che prepari la strada a nuove elezioni in un clima finalmente democratico.

 

La nuova iniziativa dell’opposizione sudanese arriva dopo l’intervento dello scorso 3 giugno di una milizia paramilitare che aveva smantellato con estrema violenza un presidio di protesta di fronte al ministero della Difesa. Con la scusa di arrestare trafficanti di droga che operano solitamente in un’area adiacente, le forze di sicurezza erano state protagoniste di un vero e proprio bagno di sangue. Secondo un’associazione di medici sudanesi, i morti erano stati almeno 118, molti dei quali ripescati dalle acque del Nilo, dove erano stati gettati dai militari per non essere ritrovati e riconosciuti.

 

I feriti ammontavano invece a quasi 800 e numerosi altri morti si sono poi contati nei giorni seguenti a causa di sporadici scontri a Khartoum e in altre città. Per impedire una nuova mobilitazione popolare, le autorità hanno inoltre bloccato l’accesso a internet, così da rendere complicato il coordinamento tramite i social media, come era avvenuto con successo nei mesi precedenti.

 

A guidare la repressione della settimana scorsa erano stati gli uomini della cosiddetta Forza Rapida di Supporto (FRS), distintisi oltre un decennio fa per i metodi brutali adottati nella regione del Darfur, quando era una milizia nota col nome di “Janjaweed”. La FRS continua a controllare le strade di Khartoum ed è comandata dal famigerato generale Mohamed Hamdan Dagalo, soprannominato “Hemedti”, formalmente numero due della giunta militare al potere ma ritenuto il vero leader del regime nato dopo la deposizione di Bashir.

 

L’ormai ex presidente era stato messo da parte l’11 aprile scorso con un golpe preventivo dei militari, spaventati dall’ondata di proteste che minacciava di spazzare via l’intera impalcatura militare del regime sudanese. Com’era spesso accaduto per le rivoluzioni – genuine o create a tavolino in Occidente – che avevano sconvolto il mondo arabo nel 2011, anche quella che sta interessando il Sudan era iniziata come protesta contro l’aumento dei generi di prima necessità, per poi sfociare in una rivolta generale contro Bashir e la sua cerchia di potere.

 

Dopo l’uscita di scena forzata del presidente, le organizzazioni che rappresentano o pretendono di rappresentare la popolazione sudanese avevano accettato di negoziare la transizione con i militari. Le trattative erano però naufragate sulla questione della guida del governo che avrebbe dovuto portare il Sudan verso le elezioni. Per l’opposizione, i generali avrebbero dovuto farsi da parte o, quanto meno, partecipare a un esecutivo guidato da civili, con l’obiettivo di preparare il paese per una consultazione libera e democratica da tenersi di qui a tre anni.

 

L’improvvisa accelerazione impressa alla contro-rivoluzione in Sudan dai militari è avvenuta di fatto con il consenso e il pieno sostegno, anche materiale, di regimi dittatoriali come quelli di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Pochi giorni prima della repressione del 3 giugno, il numero uno ufficiale del Consiglio Militare di Transizione, generale Abdel Fattah al-Buran, si era recato infatti al Cairo e ad Abu Dhabi per ricevere ordini su come soffocare le proteste. Il suo vice, il già ricordato generale Dagalo, era stato protagonista invece a Riyadh di un faccia a faccia con l’erede al trono saudita, principe Mohammed bin Salman.

 

L’esempio seguito dai militari sudanesi è in sostanza quello egiziano, dove nel 2013 l’attuale presidente-dittatore, generale Abdel Fattah al-Sisi, aveva represso nel sangue la rivolta dei sostenitori del deposto presidente democraticamente eletto, Mohammed Mursi, e spento definitivamente gli impulsi rivoluzionari nel paese nordafricano.

 

Per quanto riguarda l’Occidente e, in particolare, gli Stati Uniti, i rispettivi governi hanno emesso nelle ultime settimane dichiarazioni di circostanza per condannare le violenze dei militari o per richiamare alla calma e al dialogo tutte le parti coinvolte nella crisi sudanese. Washington, tuttavia, sembra avere dato il sostanziale via libera alle violenze, dal momento che l’iniziativa è in larga misura in mano a paesi fedelmente alleati degli USA.

 

Arabia Saudita ed Emirati Arabi si sono impegnati per stanziare aiuti pari a ben tre miliardi di dollari per il Sudan controllato dai militari. I rapporti tra queste monarchie assolute e Khartoum si erano già consolidati da tempo e, recentemente, si sono rafforzati nel sangue della popolazione dello Yemen, dove un contingente sudanese sta partecipando alla guerra criminale condotta da Riyadh e Abu Dhabi.

 

L’interesse per il Sudan è principalmente di natura strategica, viste le dimensioni del paese e la sua collocazione geografica con un affaccio cruciale sul Mar Rosso. Con Bashir al potere, questo paese aveva cercato di attuare una politica estera all’insegna dell’equilibrismo, bilanciando i propri rapporti con paesi attestati su schieramenti ideologici talvolta opposti anche per compensare e contrastare l’emarginazione imposta dall’Occidente.

 

L’intervento di paesi come Arabia, Emirati ed Egitto a favore della nuova giunta militare post-Bashir ha ora un duplice obiettivo. Il primo è quello di impedire un’evoluzione relativamente democratica della rivoluzione sudanese, visto che gli esempi simili degli anni scorsi – dall’Egitto alla Tunisia al Marocco – avevano spesso portato al potere governi vicini se non aperta espressione dei Fratelli Musulmani, nemici giurati delle monarchie assolute di Riyadh e Abu Dhabi.

 

L’altro obiettivo, collegato a quello appena esposto, ha a che fare con la rivalità tra questi stessi regimi e la Turchia di Erdogan, così come in misura minore l’emirato del Qatar, paesi cioè considerati protettori dei Fratelli Musulmani e impegnati anch’essi in un’offensiva strategica e diplomatica in Africa nord-orientale. Ankara, soprattutto, aveva instaurato rapporti proficui con il regime di Bashir, testimoniati tra l’altro da svariati accordi di cooperazione bilaterale stipulati nel recente passato e da una concessione ottenuta per la costruzione di una base militare turca su un’isola sudanese nel Mar Rosso, di fronte alle coste saudite.

 

La sorte della rivolta in Sudan si intreccia perciò alle rivalità che continuano a caratterizzare il Nordafrica e il Medio Oriente. Con i governi occidentali che hanno in pratica delegato la risoluzione della crisi alle dittature del Golfo Persico, la mobilitazione del popolo sudanese e la lotta contro il regime militare dovranno misurarsi da sole contro forze formidabili che spingono senza nessuno scrupolo per il successo definitivo dell’ondata contro-rivoluzionaria.

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