Mentre l’inviato speciale del governo americano in Afghanistan continua ad alimentare concrete speranze per un accordo di pace tra gli Stati Uniti e i Talebani, l’offensiva di questi ultimi nel paese centro-asiatico sembra non avere tregua. Anzi, nei giorni scorsi gli attacchi contro le forze di occupazione e quelle indigene hanno fatto segnare una drammatica escalation, tanto da mettere in seria discussione la percorribilità del processo diplomatico in corso.

Dopo il nono round di colloqui a Doha, nel Qatar, tra i rappresentanti dell’amministrazione Trump e la delegazione talebana, il diplomatico americano nativo dell’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, ha raggiunto Kabul dove ha messo al corrente il presidente afgano, Ashraf Ghani, dell’esito delle trattative. Un accordo di massima sarebbe stato raggiunto tra le due parti e prevedrebbe, tra l’altro, il ritiro dei soldati USA da cinque basi attualmente occupate in territorio afgano entro i prossimi quattro mesi, sempre che i Talebani rispettino la loro parte di impegni.

 

I termini dell’intesa non sono ancora definitivi, ha avvertito il diplomatico americano, e non è del tutto chiaro quale impatto potranno avere le più recenti azioni dei Talebani a Kabul e in altre località del paese. Quel che è certo è che in molti all’interno del governo e ai vertici delle forze armate USA temono fortemente l’evolversi della situazione in un futuro Afghanistan senza la presenza militare americana e con i Talebani reintegrati a tutti gli effetti nella realtà politica e sociale.

Ufficialmente, il problema sarebbe il ritorno a forme medievali di fondamentalismo religioso e la possibilità che l’Afghanistan torni a ospitare gruppi terroristici intenzionati a colpire gli Stati Uniti o l’Occidente in genere. Se soprattutto la prima ipotesi appare tutt’altro che remota, i veri scrupoli della classe dirigente americana sono in realtà legati alla perdita del controllo su un paese strategicamente importantissimo negli equilibri centro-asiatici e già esposto all’influenza di attori come Russia, Cina e Iran.

Secondo l’accordo negoziato a Doha, i Talebani dovrebbero appunto fornire garanzie relative alla sicurezza sia dell’Afghanistan sia degli Stati Uniti e dei loro interessi, anche se non è dato sapere quali saranno i meccanismi che dovranno assicurarla una volta che i 14 mila soldati americani e i 17 mila di altri paesi che partecipano all’occupazione se ne saranno andati.

I Talebani, dopo avere eventualmente firmato un accordo definitivo con Washington, dovranno aprire quella che potrebbe diventare la fase più complessa del processo diplomatico, vale a dire i colloqui di pace con il governo di Kabul, considerato non senza ragione dagli “studenti del Corano” come un fantoccio degli Stati Uniti. La leadership talebana aveva in passato respinto ogni ipotesi di dialogo con il governo afgano, sostenendo che qualsiasi trattativa avrebbe dovuto avere come interlocutori soltanto gli Stati Uniti.

Lo stesso presidente Ghani aveva espresso a sua volta malumori per l’esclusione dalla trattativa tra i Talebani e Washington. I colloqui tra i rappresentanti del governo di Kabul e i Talebani dovrebbero ad ogni modo cominciare nelle prossime settimane in Norvegia. Su di essi peseranno, oltre all’attitudine di questi ultimi, il timore concretissimo di Ghani e dell’intera classe politica emersa dopo l’occupazione americana che il regime attuale venga spazzato via dai Talebani non appena l’ultimo soldato americano lascerà il territorio afgano.

Gli ostacoli alla finalizzazione di un accordo anche solo tra USA e Talebani restano dunque considerevoli e a complicare ulteriormente la situazione sono anche le elezioni presidenziali, previste in Afghanistan per il 28 settembre prossimo. La consultazione è notoriamente un affare tutt’altro che pulito in Afghanistan, essendo pesantemente condizionata dagli interessi dei vari clan che detengono il potere nel paese, così come di quelli americani.

In molti chiedono perciò un nuovo rinvio del voto per evitare che il caos solitamente generato dall’appuntamento con le urne possa interferire con la diplomazia. I seggi, inoltre, sono spesso oggetto di attacchi proprio da parte dei Talebani e un’intensificazione della campagna militare in un frangente così delicato rischierebbe di mandare a monte i negoziati.

Peraltro, le azioni talebane si sono già moltiplicate nei giorni scorsi, malgrado i loro rappresentanti fossero contemporaneamente impegnati a Doha nei colloqui con gli Stati Uniti. Pesanti offensive a Kunduz e in altri distretti afgani sono state seguite lunedì da un gravissimo attentato nella zona verde di Kabul che ospita organizzazioni e diplomatici stranieri. Il bilancio finale, come al solito, è stato di decine di morti tra civili, militanti talebani e forze di sicurezza indigene.

La strategia talebana è chiaramente quella di attestarsi su una posizione di vantaggio in vista della fase finale dei negoziati con Washington e dell’avvio di quelli con Kabul. La capacità di colpire ripetutamente anche al cuore del fragilissimo stato afgano proprio mentre si sta discutendo della pace riflette più in generale una situazione nella quale, a diciotto anni dall’invasione americana, i Talebani appaiono fortemente radicati nel paese, controllando, a seconda delle stime, tra la metà e il 60% dell’intero territorio.

La scommessa dell’amministrazione Trump in previsione delle presidenziali del 2020 è comunque quella di riuscire a chiudere una lunghissima e costosissima guerra, i cui obiettivi ufficiali hanno perso ormai da tempo ogni significato per la popolazione americana. La Casa Bianca dovrà però tenere conto degli interessi strategici in gioco in Afghanistan. Infatti, uno dei nodi ancora da sciogliere è l’eventuale permanenza di un contingente militare o della CIA, ufficialmente con incarichi di anti-terrorismo ma in realtà per cercare di conservare una qualche influenza sul paese centro-asiatico dopo il sempre più probabile ritorno a Kabul dei Talebani.

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