Il Brasile recupera un pezzetto di dignità. Dopo 580 giorni di carcerazione illegale, venerdì scorso l’ex presidente Lula è uscito di galera. Non è stato assolto: la Corte Suprema ha però stabilito che non si può rinchiudere un imputato prima della condanna definitiva, e il leader della sinistra brasiliana è ancora in attesa del giudizio finale. Per cui hanno dovuto farlo uscire. Come prima tappa, Lula si è diretto alla sede del suo sindacato, dove ha definito "vergognosi" i media brasiliani, rei di non dare spazio alle accuse emerse negli ultimi mesi contro il ministro della Giustizia, Sergio Moro, che quando era giudice è stato protagonista del complotto contro di lui.

“Non abbiamo vinto nulla ma adesso ho tutte le prove per dimostrare che Moro è stato un bugiardo - ha detto Lula - ed esigo che la Corte suprema annulli tutti i processi. Ho 74 anni ma me ne sento 30. E per 20 ancora lotterò per restituire al Brasile il governo che merita. Si può governare per i poveri e i più bisognosi. Se lavoreremo bene, per il 2022 questa cosiddetta sinistra che fa tanta paura a Bolsonaro sconfiggerà l’estrema destra. Il Brasile si merita di meglio e di più”.

La scarcerazione di Lula è stata accolta con soddisfazione da tutti i leader della sinistra sudamericana: “Viene restituito un uomo diventato un simbolo”, ha commentato l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica.

In effetti, Lula è davvero il simbolo di tutto ciò che le destre (e gli Stati Uniti) non sopportano in America Latina. Ex operaio metallurgico e sindacalista, fondatore del Partito dei Lavoratori (PT) e presidente del Brasile per due mandati consecutivi, dal 2003 al 2011, Lula ha portato fuori dalla povertà 32 milioni di persone, aumentando la scolarizzazione nelle aree più depresse e varando riforme per aiutare gli ultimi. Con lui il Brasile - uno dei Paesi dove le disuguaglianze sociali sono più estreme a livello globale - divenne una potenza economica con tassi di crescita a due cifre, capofila dei paesi in via di sviluppo conosciuti come Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).

Per evitare una nuova rielezione di Lula, alle elezioni presidenziali del 2018 la destra non aveva altra possibilità che impedire all’avversario di presentarsi. Ci è riuscita con una macchinazione giudiziaria basata sul nulla: l’ex presidente è stato giudicato colpevole di corruzione per una presunta tangente immobiliare. Secondo l’accusa, Lula avrebbe ricevuto un appartamento dall’azienda Oas in cambio di una serie di favori che avrebbero garantito all’impresa alcuni contratti con Petrobras, la compagnia petrolifera statale brasiliana. Peccato che, tanto in primo quanto in secondo grado, gli inquirenti non siano stati in grado di provare alcunché. L’unico documento esibito dalla Procura è un contratto di acquisto o cessione di un appartamento senza intestazione e senza firma: non compare né il nome di Oas, né quello di Lula o di persone a lui riconducibili.

“All’oligarchia non interessa né la democrazia né la giustizia” aveva commentato il presidente boliviano, Evo Morales, dopo la condanna di Lula. “La vera ragione per la quale si condanna il fratello Lula è per impedire che torni ad essere il presidente del Brasile. La destra non gli perdonerà mai di aver tolto dalla miseria a 30 milioni di poveri”.

Si compiva così il golpe iniziato con la destituzione di Dijlma Roussef e concluso con l’elezione dell’impresentabile Bolsonaro, presidente fascista, razzista, sessista, armaiolo, amico di chi dà fuoco alla foresta amazzonica e vassallo degli Usa di Donald Trump.

La scarcerazione di Lula è senz’altro un bagliore di speranza nel buio pesto che avvolge il Brasile di oggi, ma la verità è che l’ex presidente potrebbe comunque tornare in carcere. La sentenza della Corte Suprema non impedisce infatti al Parlamento di modificare la Costituzione in tema di processi e detenzione. E ci sono già due proposte di legge in questo senso che aspettano solo di essere votate.

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