Il Nicaragua, per molti aspetti, è terra magica. Il divenire quotidiano ha sempre il sapore di un evento. Colpa forse di vulcani e temperature, di passioni incandescenti, nulla è pacato. Persino il tempo ha una movenza particolare. Ci sono sere, in Nicaragua, dove quando il sole tramonta invece che la notte comincia un nuovo giorno. Una di queste fu quella del 10 Gennaio 2007. Il nuovo e di nuovo Presidente del Nicaragua, il Comandante Daniel Ortega Saavedra, in nome e per conto del suo popolo indossò la fascia presidenziale.

Del Nicaragua non offro testimonianze imparziali. Della sua storia politica e umana non sono relatore indifferente ed anzi considero l’imparzialità tra il giusto e l’ingiusto il peggio in cui possa prodursi un essere umano, così come il confondere le vittime con i carnefici, la sorte delle moltitudini con i privilegi dei pochi, la Patria con i nemici della Patria. Di quella sera conservo un ricordo speciale. Quella vinta non era stata solo una battaglia politica ed elettorale: era la fine di un tunnel durato 16 maledetti anni. A differenza che il 1979, non c’era la cacciata di un dittatore, ma andava espulsa la tirannide del neoliberismo. La piazza stracolma: decine di migliaia di persone camminarono sottobraccio con milioni di speranze. Che era necessaria, il paese era in ginocchio.

 

Quella sera, insomma, non andava in onda un semplice consegna di poteri, una manifestazione dell’alternanza al governo propria di un regime democratico. Era invece la cerimonia d’inizio della restituzione dei diritti collettivi, veniva formalizzato il ritorno alla democrazia popolare. La Rivoluzione tornava al suo lavoro e il Nicaragua tornava ad abbracciarla, come quando una famiglia si riunisce dopo una lontananza lunga e dolorosa.

Sono passati 13 anni da quel Gennaio 2007 quando, per la seconda volta nella storia, il Sandinismo tornava al potere per ricostruire, risanare, riedificare. L’impresa spagnola Union Fenosa era il presidente de facto: la sua politica energetica impediva al Nicaragua non solo di produrre ma persino di sopravvivere. Cacciarla dal Paese era indispensabile e fu la prima iniziativa socialmente utile dopo 16 anni. Lo spazio era stretto, non c’erano vie d’uscita: o il Nicaragua usciva subito dalle tenebre o le stesse avrebbero declinato la fine del futuro. Fu la generosità del Comandante Chavez ed il suo affetto per Ortega che mise il Nicaragua in condizione di poter cacciare i nuovi conquistadores. Due piante elettriche donate all’istante e la nascita di un progetto integrato per il rifornimento energetico del Nicaragua furono lo start della corsa verso la normalizzazione del Paese.

Nel corso degli anni ’90 avevo ridotto la frequenza dei miei viaggi in Nicaragua. Mi procurava dolore vedere tanta povertà e disperazione. Dal Gennaio del ’91 si aprirono le porte dell’inferno per la Nicaraguita che avevo imparato ad amare. Lo spettacolo che dal 1990 al 2006 appariva agli occhi dello straniero che visitava il paese offriva lo scheletro dello stesso. Da colonia dell’impero, il Nicaragua aveva sfidato le leggi della sopravvivenza. Certo, c’era povertà anche negli anni ’80, ma nonostante la guerra la speranza occupava i discorsi.

Molte poche le amicizie che erano rimaste dove le avevo lasciato. Licenziamenti politici di massa: la militanza sandinista costava la disoccupazione. Senza elettricità per diverse ore al giorno e con la mancanza di acqua, mettere tre volte al giorno il cibo in tavola era divenuto privilegio di una percentuale minore. Per la maggioranza c’erano fame, analfabetismo e malattie endemiche di ritorno, disoccupazione massiccia, stato di coma dell’assistenza e della previdenza, innalzamento della mortalità infantile e riduzione dell’aspettativa di vita: nascere diventava un’avventura pericolosa ed invecchiare era divenuto un lusso. I più deboli - donne anziane, bambini - non comparivano nelle statistiche ufficiali ma affollavano i marciapiedi. Le mani non salutavano, chiedevano. I numeri della disperazione si perdevano nelle cifre dei falsi positivi. Sedici anni di saccheggio liberale stremarono il paese.

Eppure i tecnocrati avevano avuto il cammino in discesa. La guerra era finita. La riapertura dei canali commerciali con tutto il mondo apriva a linee di credito e forniture. Quelli che nella decade degli ’80 voltarono le orecchie e lo sguardo altrove, improvvisamente si appassionarono alle sorti del Nicaragua. Il debito contratto con l’estero, infatti, venne condonato generosamente. La fine di ogni debito pregresso era stato il regalo che l’impero e i suoi seguaci avevano offerto alla resa di un popolo che usò matite disperate per segnare la croce nella bolletta elettorale. Volle fermare la guerra, che gli era impigliata nelle carni, credendo che la sua fine portasse pace e benessere. Pensò che le difficoltà si dovevano all’impronta socialista del governo rivoluzionario, mentre invece la guerra, il blocco economico e le pressioni internazionali erano la trimurti dell’assedio imperiale.

Nell’epoca liberale post-rivoluzionaria si sommarono due disgrazie: le politiche liberiste dei diversi governi e l’ansia depredatrice delle famiglie oligarchiche. Uno tsunami di ruberie e corruzione si riversò su una nazione povera ormai anche di speranze. In prima fila i Chamorro e non era certo la prima volta: l’arte riconosciutagli è quella del trasferimento delle ricchezze pubbliche del Paese in patrimonio privato della famiglia; una gigantesca commutazione a ciclo continuo che li rende affascinanti a Washington, invidiati a Miami, detestati a Managua.
In quegli anni mi capitò spesso di incontrare il Comandante Daniel in giro per il mondo: per motivi diversi partecipavamo entrambi agli eventi internazionali. Io viaggiavo come inviato all’estero per il mio giornale, lui per mediare i conflitti internazionali e per il suo Paese. Sì, perché anche durante i governi liberali, Ortega cercava aiuti per il Nicaragua. Perché anche se all’opposizione, era comunque il Capo del sandinismo e il Presidente dei nicaraguensi (in parte la stessa cosa). Altra stoffa, altra etica, altro spessore umano e politico da chi viaggia solo per chiedere di sanzionare il proprio paese.

Visto con gli occhi di vi torna oggi, il Nicaragua è oggi un altro Paese, completamente distinto e distante da quanto a Daniel toccò ereditare dalle mani dei tecnocrati liberali, cleptomani con master e dottorati. Da 13 anni il Nicaragua sandinista è impegnato a mettere in opera quanto aveva cominciato a fare dopo la liberazione del Paese dalla tirannide somozista. Questi ultimi 13 anni sono stati la seconda tappa di quella Rivoluzione che trionfò nel 1979.

Le condizioni generali del paese non sono paragonabili a quello che si vedeva quando governava la destra. L’educazione è di nuovo gratuita, perché il governo investe sul Nicaragua e l’idea di Paese prevede un popolo educato e colto. Il 6% del PIL è destinato all’istruzione, così recita la Costituzione, unica al mondo a prevedere l’obbligo di darsi un futuro. Ma il diritto allo studio comincia dai primi anni e oltre agli stanziamenti pubblici che lo rendono possibile direttamente, a renderlo efficace anche indirettamente c’è il sostegno economico alle famiglie: il pasto gratis, un milione e mezzo di zainetti in dono ad ogni scolaro. La salute è di nuovo gratuita, 20 sono gli ospedali costruiti e dotati delle migliori attrezzature. 170 case materne e decine e decine di ambulatori ristrutturati o costruiti. La sanità nicaraguense raggiunge oggi punte di eccellenza non riscontrabili in nessun altro Paese del Centro America. Le pensioni sono le più generose al mondo, bastano 20 anni di contribuzione per averne diritto compiuti i 60 anni.
E’ sostanzialmente raggiunta l’autosufficienza alimentare ed è significativamente avanti quella energetica, che vede l’intero paese servito dalla rete elettrica, con una quota di rinnovabili pari al 70% dell’energia complessivamente impiegata.

Sono ben 52 i programmi sociali destinati a ridurre la distanza tra povertà e benessere. Oltre 3500 km di strade costruite. Trasporti pubblici al costo più basso di tutta la regione. Più di 50.000 case sono state destinate alle famiglie che non erano in condizione di poterle acquistare e vengono distribuiti oltre centomila pacchetti alimentari al mese, perché la fame e la povertà estrema sono i nemici irriducibili del sandinismo.

Alcune reazionarie si spacciano per femministe, ma è un inganno. Hanno solo scoperto come il filone sia redditizio per i sepolcri imbiancati dei finti progressisti; un business di alcuni milioni di dollari annui. Ad esempio, non è un caso che le ONG e le organizzazioni oppositrici sedicenti femministe chiedano la liberazione del “detenuto politico” Jeison Joesman Castro Ortez, criminale femminicida che ha ucciso la sua compagna con 14 coltellate, ma si era dato da fare sulle barricate della destra. Nel Nicaragua sandinista, il femminismo non sta tra chi vende la sua patria allo straniero, ma nelle donne identificate come capifamiglia e destinatarie dei finanziamenti familiari; sta nell’essere divenuto il quinto paese al mondo per il Gender Gap. Che risultato grande per un paese così piccolo, no?

Il 52 per cento dei nicaraguensi esprime simpatia per il governo del Comandante Ortega. Da 13 anni il FSLN continua a vincere tutte le battaglie elettorali, quale che sia la posta in gioco. Sono 13 anni di guerra al neoliberismo. E’ stato messo in campo il più grande progetto di trasformazione del Paese non solo realizzato, ma mai nemmeno immaginato, che ha sconfitto ostilità politica e terrorismo, sovvertendo il calcolo delle probabilità. La chavala, nata nel 1979, è diventata adulta.

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