Proprio mentre l’epidemia di Coronavirus sta penetrando minacciosamente nello Yemen, col rischio di far precipitare quella che è già da tempo la peggiore crisi umanitaria del pianeta, il fronte di guerra è tornato a registrare una nuova complicazione che mette in serio dubbio gli obiettivi della casa regnante saudita. Riyadh ha visto infatti riaccendersi le tensioni con il principale alleato, gli Emirati Arabi Uniti, dopo l’iniziativa presa qualche giorno fa dal movimento indipendentista dello Yemen meridionale, il cui sponsor principale è appunto il regime di Abu Dhabi.

Il cosiddetto Consiglio di Transizione dello Yemen del Sud (STC) settimana scorsa ha dichiarato l’auto-governo nelle province meridionali del paese e messo fine di fatto all’accordo che era stato siglato nel novembre del 2019 con il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale, quello del presidente-fantoccio dei sauditi, Abd Rabbuh Mansour Hadi.

 

Questa intesa era stata promossa da Riyadh e Abu Dhabi per scongiurare una pericolosa escalation del conflitto interno al fronte anti-Houthis, cioè i “ribelli” sciiti che nel 2014 avevano rovesciato lo stesso Hadi e assunto il controllo della capitale, Sana’a, e di buona parte del paese della penisola arabica. Contro gli Houthis era stata scatenata la guerra di aggressione saudita nel 2015 nel tentativo di reinstallare alla guida dello Yemen il deposto presidente Hadi e, soprattutto, per impedire il consolidamento degli interessi iraniani in un’area considerata di diritto come propria zona di influenza dalle monarchie del Golfo Persico.

Lo scontro tra le forze del STC e quelle fedeli a Hadi era stato tale che gli aerei da guerra degli Emirati Arabi erano arrivati addirittura a bombardare queste ultime, malgrado l’alleanza formale con l’Arabia Saudita. I separatisti nel mese di agosto avevano occupato la capitale dello Yemen del Sud, Aden, e la guerra aperta era apparsa vicinissima in seguito alla controffensiva scatenata da Riyadh.

La già ricordata tregua siglata a novembre aveva poi risolto la crisi, ma solo in apparenza, come dimostra la dichiarazione del STC della scorsa settimana. Secondo i leader del movimento del sud yemenita, i vertici sauditi e il governo Hadi hanno fatto poco o nulla da allora per implementare i termini di un accordo che avrebbe dovuto creare un governo condiviso dalle due parti in conflitto. Un portavoce del STC venerdì scorso aveva spiegato in un’intervista alla testata on-line Middle East Eye che il passo verso l’autogoverno delle province meridionali è la logica conseguenza del mancato rispetto dell’accordo di novembre da parte saudita.

Ufficialmente, gli Emirati Arabi si sono detti in disaccordo con la dichiarazione del STC e hanno fatto appello al rispetto degli impegni presi con il governo del presidente Hadi. Il leader separatista yemenita, Aydarous al-Zubaidi, ha però proclamato l’auto-governo proprio dalla capitale degli Emirati. Il Consiglio di Transizione dello Yemen del Sud (STC) era stato creato nel 2017 e affonda le radici nel movimento indipendentista che, in varie forme, aveva continuato ad attraversare le province meridionali dello Yemen dopo l’unificazione nel 1990 tra il nord filo-occidentale e il sud appoggiato dall’Unione Sovietica.

Alla base della decisione del STC ci sarebbe anche la necessità di intervenire con urgenza per rimediare alle disastrose condizioni in cui vive la popolazione soprattutto di Aden. L’esasperazione è ormai diffusissima per una situazione sanitaria drammatica e per la grave carenza di servizi pubblici, tanto che gli stessi separatisti sono oggetto di una rabbia sempre più difficile da contenere. L’iniziativa che dovrebbe dare impulso all’auto-governo della porzione meridionale del paese potrebbe perciò servire anche ad allentare le pressioni in questo senso e a dirottare il malcontento verso il governo “centrale” appoggiato da Riyadh.

La risposta dei reali sauditi all’iniziativa del STC non è andata per il momento al di là di una ferma condanna. Le due parti sono state tuttavia protagoniste di scontri armati sull’isola di Socotra dopo che i separatisti avevano cercato di strappare il territorio strategicamente posizionato all’imbocco del Golfo di Aden alle forze governative. Nel fine settimana sull’isola è stata firmata una tregua che riflette in primo luogo la cautela con cui Riyadh deve far fronte al riesplodere della crisi.

Le enormi difficoltà che l’Arabia Saudita continua a incontrare nello Yemen sono evidentemente il risultato della campagna bellica lanciata dalla stessa monarchia wahhabita per ripristinare la propria influenza su un paese ritenuto cruciale, soprattutto nel quadro della rivalità regionale con l’Iran. La guerra sanguinosa contro il più povero dei paesi arabi ha finito per scoperchiare un calderone di conflitti e interessi contrapposti anche tra alleati nominali.

Il procedere della guerra e l’impossibilità di giungere a una soluzione definitiva con l’uso della forza hanno spinto così gli Emirati Arabi ad alimentare le storiche spinte separatiste nel sud dello Yemen. In questo modo, i regnanti di Abu Dhabi hanno cercato di bilanciare la prevalente autorità saudita in un paese dove hanno investito in maniera considerevole negli ultimi cinque anni.

Come dimostra anche l’interesse per l’isola di Socotra, gli Emirati puntano principalmente a controllare, tramite i separatisti del STC, le rotte marittime tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, in funzione sia del proprio export petrolifero sia del ruolo di primissimo piano che ricopre questo paese nell’ambito della logistica e dei trasporti marittimi. Ufficialmente, gli Emirati Arabi avevano ritirato il proprio contingente militare dallo Yemen la scorsa estate, ma hanno continuato in realtà ad adoperarsi per orientare il conflitto, con l’attenzione concentrata in particolare sui circa duemila chilometri di coste del paese.

In gioco c’è inoltre la rivalità o, per meglio dire, la competizione con l’alleato saudita. A Riyadh sembra evidente un certo risentimento nei confronti degli Emirati Arabi, anche se il conflitto non deve essere sopravvalutato, visto l’intreccio di interessi economici e in parte strategici tra i due regimi. Resta il fatto che l’intraprendenza di Abu Dhabi crea non pochi grattacapi ai sauditi, le cui prospettive di “successo” nello Yemen appaiono sempre meno rosee.

Il riesplodere del separatismo nel sud del paese rende più complicata la guerra contro gli Houthis, dal momento che, com’è evidente, sottrae forze non esattamente inesauribili da quello che dovrebbe essere l’obiettivo comune dei due alleati. L’Arabia Saudita procederà comunque cautamente per evitare la rottura con gli Emirati, anche perché le ambizioni separatiste nel sud dello Yemen hanno scarse probabilità di successo, dal momento che incontrano l’opposizione di praticamente tutta la comunità internazionale.

Come minimo, le vicende degli ultimi giorni rappresentano una fastidiosa distrazione per i sauditi, da tempo alla ricerca di una exit strategy dal conflitto. Colloqui informali con gli Houthis per trovare una soluzione diplomatica sono in corso da mesi e, in un chiaro segnale di disperazione, Riyadh nel mese di aprile aveva annunciato un cessate il fuoco unilaterale, peraltro respinto dai “ribelli” sciiti. Queste iniziative dimostrano come l’Arabia Saudita si ritrovi in un vicolo cieco, senza strade percorribili per chiudere una guerra che pesa come un macigno sulle casse del regno e, vista l’enormità dei crimini commessi in questi anni nello Yemen, sulla già infima reputazione internazionale di questo paese.

Gli sviluppi più recenti confermano infine, se mai fosse stato necessario, come la campagna yemenita promossa da Riyadh e dai suoi alleati, inclusi quelli occidentali, non abbia nulla a che fare con l’impegno a rimettere al proprio posto un governo legittimo. Il prolungarsi del conflitto e la resistenza poco meno che eroica degli Houthis hanno infatti portato a galla profonde contraddizioni e smascherato interessi decisamente meno nobili alla base dell’aggressione criminale contro la popolazione dello Yemen.

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