Le storiche immagini che nel 2018 e per pochi mesi nel 2019 sembravano prefigurare un disgelo definitivo tra la Corea del Nord e i suoi nemici appaiono sempre più come un lontano ricordo che sembra testimoniare di un processo diplomatico ormai sull’orlo del baratro. Non solo i negoziati tra Pyongyang e Washington continuano a rimanere ingolfati, ma anche il più promettente dialogo tra le due Coree rischia di vedere crollare tutti i progressi degli ultimi mesi, come dimostra il ritorno proprio in questi giorni a una retorica bellicosa da parte del regime di Kim Jong-un.

La Corea del Nord ha fatto sapere martedì che intende “tagliare tutte le linee di comunicazione” con il Sud in conseguenza dell’incapacità del governo alleato degli Stati Uniti di impedire le attività propagandistiche degli esuli nordcoreani. Lungo il 38esimo parallelo, la tensione era tornata a salire la scorsa settimana, quando gruppi di rifugiati dalla Nordcorea avevano ripreso il lancio di palloni con volantini di propaganda anti-regime dalle zone di confine, nonostante il governo di Seoul scoraggi ufficialmente questo genere di iniziative.

Pyongyang considera questi gesti come un’aperta provocazione e da svariati giorni esprime durissime proteste contro la Corea del Sud, per non parlare dei feroci insulti rivolti contro gli attivisti nordcoreani fuggiti oltreconfine. Il governo sudcoreano del presidente Moon Jae-in ha chiesto lo stop a queste attività e il partito di maggioranza ha presentato in parlamento una proposta di legge per vietare il lancio di materiale propagandistico in Corea del Nord.

A livello politico, l’opposizione sudcoreana ha però tutto l’interesse a boicottare il processo diplomatico e, comunque, i tentativi del governo di abbassare le tensioni non hanno prodotto effetti significativi. Secondo un annuncio fatto dall’agenzia di stampa ufficiale KCNA, la Corea del Nord ha così “raggiunto la conclusione che è inutile discutere faccia a faccia con le autorità sudcoreane”, non essendoci motivo di parlare con un governo che “ha soltanto alimentato il disappunto” del regime.

La già citata sospensione delle “linee di comunicazione” con Seoul fa riferimento a una serie di iniziative concordate tra i due paesi nel corso dei negoziati inter-coreani degli ultimi due anni, culminati negli incontri tra i rispettivi leader e, in particolare, nella visita del presidente sudcoreano Moon a Pyongyang nel settembre del 2018.

La decisione resa nota martedì sarebbe il frutto di un vertice tra i responsabili della gestione dei rapporti con il Sud, a cui hanno preso parte, tra gli altri, la sorella del “leader supremo”, Kim Yo-jong, e il vice-presidente del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori, Kim Yong-chol. A fare le spese dell’escalation in corso sono anche la linea telefonica diretta tra i vertici del partito unico nordcoreano e l’ufficio del presidente sudcoreano, così come la “linea di contatto” creata lungo il confine e quella che coinvolge i militari dei due paesi.

L’irritazione di Pyongyang e la natura potenzialmente preoccupante dei provvedimenti risultano evidenti dalla definizione utilizzata per la Corea del Sud. L’organo di stampa nordcoreano ha avvertito cioè che l’attitudine nei confronti di Seoul diventerà quella più adeguata ad affrontare un “nemico” e per implementare “questa transizione” saranno discussi e adottati dei “piani graduali”.

La rabbia di Kim deriva in primo luogo dal fatto che gli accordi firmati con Moon nell’aprile del 2018 e nel settembre dello stesso anno per favorire il disgelo includevano la promessa di Seoul di mettere fine ad attività provocatorie proprio come l’invio di materiale propagandistico contro il regime dalle aree di confine. Come già accaduto in relazione ai colloqui con gli Stati Uniti, Pyongyang esprime un profondo risentimento per quello che ritiene essere, per molti versi correttamente, un mancato rispetto degli impegni presi dalla controparte, nonostante le aperture e le concessioni che il regime avrebbe invece fatto.

Su un piano più generale, il deteriorarsi delle relazioni tra le due Coree è il riflesso dello stallo prolungato dei colloqui di pace tra Pyongyang e Washington. Gli sforzi del presidente sudcoreano Moon per promuovere la distensione con Kim e innescare in questo modo una qualche scintilla in grado di portare a progressi concreti tra Corea del Nord e Stati Uniti sono in larga misura naufragati. L’incapacità di superare le costrizioni dell’alleanza con Washington e limitazioni oggettive alla propria libertà di azione hanno in sostanza finito col paralizzare anche il dialogo tra Seoul e Pyongyang, per quanto ben avviato sembrava essere solo fino a qualche mese fa.

La leadership nordcoreana ha preso così atto del progressivo riallineamento di Moon alle posizioni intransigenti americane, che vorrebbero una denuclearizzazione del regime come condizione preliminare a qualsiasi accordo di pace o concessione significativa. Il governo della Corea del Sud è rimasto intrappolato in una situazione con poche o nessuna via d’uscita diplomatica, subendo le conseguenze delle frustrazioni di Kim, a sua volta costretto a prendere atto del fallimento del tentativo di fare pressioni su Seoul per arrivare al vero obiettivo delle manovre in atto, vale a dire un trattato di pace con Washington che possa garantire la sopravvivenza del regime.

Il venir meno dell’impulso alla pacificazione a Seoul è da ricondurre almeno in parte anche agli effetti sull’economia dell’emergenza Coronavirus. L’inevitabile rallentamento del motore sudcoreano ha fatto schizzare i livelli di disoccupazione e minacciato di riaccendere le tensioni sociali, traducendosi in un incupimento del clima domestico che ha spento gli entusiasmi per una possibile riconciliazione con Pyongyang.

Se l’atmosfera generale appare dunque grigia e per nulla promettente, è come al solito difficile valutare le sfumature tattiche delle decisioni nordcoreane, quanto meno in rapporto alle azioni che saranno messe in atto nell’immediato. Minacce e iniziative apparentemente clamorose non sono una novità per Kim e i suoi predecessori, spesso con poche altre carte a disposizione per esercitare pressioni o semplicemente per mandare messaggi ai propri nemici. Non è da escludere perciò, come ha sostenuto più di un osservatore ricordando episodi del recente passato, che le misure appena decise potranno essere ritirate se arrivassero risposte positive da Seoul.

Il destino della penisola di Corea e le prospettive di pace dipendono in ogni caso e in gran parte non dalle scelte di Seoul e Pyongyang, ma da quelle che verranno fatte a Washington. Gli Stati Uniti, tuttavia, continuano a non avere un piano coerente e percorribile per la Corea del Nord, restando imprigionati in un “gioco a somma zero” che vede il regime di Kim solo come un’altra arma da usare contro la Cina e da tenere irrealisticamente fuori dai processi di integrazione che stanno attraversando il continente asiatico.

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