La polemica scatenata dal libro di memorie in uscita martedì negli Stati Uniti dell’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton, ha riportato alla luce tutte le divisioni all’interno dell’apparato di potere americano attorno agli indirizzi di politica estera e alle decisioni – prese e mancate – dell’amministrazione Trump in questo ambito.

L’operazione mediatico-letteraria del super-falco “neocon” Bolton è stata accolta con ferocia dal presidente e dai suoi sostenitori, soprattutto dopo il fallito tentativo di fermarne la pubblicazione per vie legali, mentre le reazioni nel Partito Democratico sono apparse più sfumate. I leader democratici hanno attaccato a loro volta Bolton, ma più che altro perché le sue rivelazioni sul comportamento del presidente sono arrivate tardi, mentre avrebbero fatto comodo durante il fallito procedimento di impeachment.

 

La rimozione del presidente repubblicano era d’altra parte allora una questione scottante e condivisa solo da una minima parte degli ambienti repubblicani. Anche i due milioni di dollari del contratto sottoscritto da Bolton per il suo libro hanno tuttavia pesato sulla decisione di affidare alle stampe le proprie rivelazioni su Trump piuttosto che al Congresso di Washington.

Qualche stralcio del libro dell’ex ambasciatore alle Nazioni Unite era stato anticipato settimana scorsa da alcuni giornali americani. Tutti i media d’oltreoceano avevano subito aperto un’accesa discussione sulle definizioni di Trump offerte da Bolton (“incapace”, “inadatto alla presidenza”) e, soprattutto, sulle accuse al presidente di essere sostanzialmente una pedina di Putin o di farsi manovrare da Xi Jinping.

L’inaugurazione del tour promozionale del suo libro ha visto poi Bolton concedere svariate interviste nel fine settimana. In un programma di ABC News, l’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale ha rincarato la dose contro il suo ex superiore. In particolare, Bolton ha indicato le elezioni presidenziali di novembre come un’ultima occasione per impedire a Trump di continuare a operare disastri dalla Casa Bianca.

Bolton non è arrivato a dichiarare la sua preferenza per il democratico Joe Biden, come aveva invece ipotizzato in precedenza il britannico Daily Telegraph, ma ha affermato apertamente che non intende votare per Trump. Per Bolton, un secondo mandato di quest’ultimo potrebbe risultare rovinoso per gli interessi degli Stati Uniti o, per meglio dire, per quelli del cosiddetto “deep state” di cui egli stesso è un esponente di primissimo piano.

Alcune “rivelazioni” contenute nel libro circa l’attitudine di Trump e il suo disinteresse per le questioni di politica estera non sono in ogni caso nuove nella sostanza, né tantomeno sorprendenti. Il dato più rilevante è tuttavia che Bolton attacca il presidente da destra, dando voce a una parte consistente dell’establishment USA che da tempo vede con estremo sospetto le velleità di disimpegno internazionale e di pacificazione con alcuni paesi rivali mostrate dall’attuale amministrazione repubblicana.

La disapprovazione più esplicita di Bolton emerge prevedibilmente in relazione alle presunte manovre con il presidente cinese per concordare un improbabile aiuto nella rielezione dello stesso Trump oppure alla gestione del faccia a faccia del 2018 a Helsinki con Putin. In questo senso, le critiche di Bolton convergono in larga misura con quelle del Partito Democratico. I rimproveri rivolti ai leader democratici dall’ex consigliere di Trump per non avere allargato le indagini sulla condotta del presidente in fase di impeachment ne sono la conferma e suonano come un’occasione persa per ricalibrare le priorità internazionali di Washington.

In buona parte, il volume di oltre 500 pagine sui retroscena della Casa Bianca è la conferma delle tendenze guerrafondaie di John Bolton. Una delle decisioni prese da Trump che quest’ultimo ritiene meno comprensibile, almeno dal suo punto di vista, è infatti quella di non avere bombardato l’Iran nell’estate dello scorso anno dopo che Teheran aveva abbattuto un drone americano.

Quelle di Bolton sono in definitiva le posizioni più radicali, estreme e pericolose della galassia ultra-reazionaria del Partito Repubblicano che negli ultimi tre anni e mezzo si è agitata da un lato per scatenare guerre contro Iran o Corea del Nord e, dall’altro, per impedire il disimpegno militare in Siria, in Afghanistan o in paesi alleati, come Corea del Sud, Giappone e Germania.

I riflessi politici del libro di Bolton dovrebbero essere comunque trascurabili, al di là della collera che ha caratterizzato la reazione di Trump. La visione delle relazioni internazionali di Bolton esclusivamente attraverso il prisma degli interessi americani e il suo agitarsi per il ricorso alla forza militare sono questioni risapute da tempo.

In fin dei conti, poi, le ambizioni del presidente repubblicano di cambiare la politica estera americana, che hanno contribuito a fargli vincere le elezioni nel 2016, sono ormai rientrate quasi del tutto. Più di un commentatore ha fatto notare come le invettive di Bolton arrivino sul finire di un primo mandato che ha visto Trump capitolare in pratica su tutti i fronti, dalla riconciliazione con Mosca alla riduzione dell’impegno militare all’estero.

Lo spostamento dell’obiettivo dalla minaccia terroristica a quella rappresentata da entità statali come Russia, Cina e Iran è proseguito senza sosta nella transizione da Obama a Trump e, in questo processo, gli impegni dell’attuale inquilino della Casa Bianca si sono sciolti come neve al sole sotto le pressioni del “deep state” e, molto spesso, di media e ambienti “liberal” riconducibili al Partito Democratico.

Come ha spiegato un’analisi delle “rivelazioni” di Bolton pubblicata nei giorni scorsi dalla testata on-line Asia Times, l’aspetto singolare della vicenda è che questo nuovo motivo di imbarazzo per Trump potrebbe singolarmente trasformarsi in un’opportunità in chiave elettorale. Gli attacchi di Bolton sono cioè facilmente riconducibili a quell’establishment che Trump intendeva liquidare nel 2016, facendo leva in primo luogo sul desiderio diffuso di mettere fine a guerre interminabili.

Con il saldarsi delle critiche degli ambienti “neocon” e di quelli democratici, non è da escludere così che Trump possa proporsi ancora una volta come il candidato del disimpegno internazionale, se non della pace, e cercare di limitare i danni da qui a novembre, quando a pesare sulle sue chances elettorali saranno, come minimo, un’economia in caduta libera e la gestione a dir poco disastrosa dell’emergenza Coronavirus.

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