La crisi che sta vivendo la Bielorussia a partire dalle controverse elezioni del 9 agosto scorso sembra essere sempre più vicina a sfuggire di mano al presidente, Alexander Lukashenko. Le frustrazioni diffuse tra la popolazione del paese dell’ex URSS appaiono più che legittime e in grado di mobilitare, in maniera cruciale, ampie fasce di lavoratori dell’industria locale, in gran parte ancora in mano pubblica. Il controllo delle proteste, tuttavia, è stato quasi subito assunto dall’opposizione anti-russa e filo-occidentale, facendo dello stallo in corso un nuovo terreno di confronto sul piano strategico tra Mosca, da una parte, e l’Occidente e gli alleati dell’Europa orientale dall’altra.

Nel fine settimana, un’altra massiccia manifestazione è andata in scena nella capitale bielorussa, Minsk, dove i dimostranti che chiedono le dimissioni di Lukashenko e nuove elezioni sono arrivati fino alla residenza ufficiale del presidente, in carica da oltre un quarto di secolo. Secondo una stima della Reuters, domenica i manifestanti potevano essere fino a 200 mila, mentre per la televisione pubblica bielorussa appena 20 mila.

 

La nuova escalation della crisi ha spinto Lukashenko a esprimersi in toni minacciosi contro i suoi oppositori nelle piazze. In parallelo, il presidente ha ostentato l’appoggio che si sarebbe garantito dai militari e dalle forze di sicurezza bielorusse, secondo molti osservatori da collegare al sostegno per il suo governo ottenuto dalla Russia di Vladimir Putin. I rapporti con l’alleato russo sono però ormai deteriorati e se per il Cremlino non ci sono per ora alternative a Lukashenko, il futuro di quest’ultimo alla guida del suo paese è tutt’altro che garantito.

Gli scenari bielorussi hanno ricalcato dal 9 agosto il solito evolversi dei piani di cambio di regime o di “guerra ibrida” che gli Stati Uniti e l’Europa orchestrano e finanziano nei paesi allineati ai propri rivali strategici. Il modello ucraino o siriano è emerso così precocemente anche a Minsk, dove a contribuire all’esplosione di tensioni che rischiano di travolgere il regime è stato peraltro in parte anche lo stesso presidente.

Nel corso del 2019, le relazioni tra Russia e Bielorussia si erano evidentemente incrinate, a causa tra l’altro delle resistenze di Lukashenko all’implementazione di un accordo – vecchio di due decenni – sulla creazione di uno “stato unitario” tra i due paesi, legati da fattori storici, culturali e linguistici comuni. Putin auspicava un’accelerazione in questo senso probabilmente anche in conseguenza delle pressioni anti-russe provenienti dall’Occidente. Di fronte ai dubbi di Lukashenko, Mosca aveva allora operato un giro di vite sugli scambi economici e sulle forniture energetiche col vicino.

Per tutta risposta, il presidente bielorusso si era rivolto all’Occidente, nel tentativo non tanto di sganciarsi dalla Russia, quanto di manovrare tra le due parti e ottenerne i massimi benefici. Ciò che ne è scaturito è stato un breve periodo di relativa distensione con USA e UE, tanto che, tra l’altro, il segretario di Stato americano Pompeo era stato protagonista di una storica visita in Bielorussia a inizio febbraio, seguita il mese successivo dalla riapertura dell’ambasciata degli Stati Uniti a Minsk.

Le aperture verso l’Occidente di Lukashenko hanno comportato un prezzo da pagare per il suo regime, che si è infatti puntualmente ritrovato davanti a un focolaio di complotti all’interno del paese, volti a installare un nuovo governo dai chiari orientamenti anti-russi. Già prima delle presidenziali del 9 agosto, che avrebbero scatenato il tentativo in corso di “rivoluzione colorata” pilotata dall’Occidente, un altro evento aveva determinato una rottura dei fragilissimi equilibri creati dal rimescolamento strategico di Lukashenko.

A fine luglio, un’operazione clandestina dei servizi segreti ucraini aveva cioè portato all’arresto a Minsk di una trentina di mercenari russi, presentati alla stampa internazionale come un corpo di spedizione inviato dal Cremlino per mettere in atto un fantomatico golpe contro il presidente bielorusso e favorire gli interessi di Mosca. In realtà, i combattenti russi erano stati ingaggiati dall’intelligence ucraina sotto copertura per essere impiegati in un non meglio definito paese africano o del vicino oriente. La sosta a Minsk doveva servire ad attendere una coincidenza aerea, ma alla fine gli ucraini hanno allertato i servizi di sicurezza bielorussi che sono intervenuti con un’operazione dal massimo clamore mediatico al chiaro fine di creare ulteriori frizioni tra Putin e Lukashenko.

Quando le relazioni tra i due leader e i due paesi sembravano sull’orlo del baratro, il presidente bielorusso ha visto esplodere la protesta nel paese e, leggendo in essa il tentativo occidentale di rimuoverlo, è tornato sui propri passi, implorando l’aiuto di Putin fino al punto di legare il destino della Bielorussia a quello della Russia e di rilanciare l’ipotesi dell’unione tra i due paesi, in precedenza fermamente avversata. A livello ufficiale, il Cremlino ha così riconosciuto la vittoria alle urne di Lukashenko, con ogni probabilità legittima anche se quasi certamente con una percentuale di consensi inferiore a quella fornita dal governo (80%). Ciò non toglie che la Russia continui a nutrire forti riserve nei confronti dell’alleato e che, una volta stabilizzata la situazione, procederà a valutare alternative più affidabili per il futuro governo di Minsk.

La candidata dell’opposizione, Sviatlana Tsikhanouskaya, sta intanto provando a unificare il fronte anti-Lukashenko con un inequivocabile appello all’Occidente. La principale, se non l’unica, credenziale dell’aspirante presidente è quella di avere preso il posto, sulle schede elettorali, del marito incarcerato. La Tsikhanouskaya, in seguito a minacce contro la propria sicurezza personale, era fuggita nella vicina Lituania. Da qui, la candidata sconfitta, assieme al “coordinamento” delle forze di opposizione creato a Minsk, continua a incitare i manifestanti, sia pure mantenendo un atteggiamento più cauto verso gli scioperi dilagati nel paese e invitando talvolta al dialogo con il regime.

L’opposizione anti-Lukashenko include svariate personalità politiche ferocemente anti-russe, filo-occidentali e ultra-nazionaliste, i cui obiettivi, in caso di presa del potere, vanno dall’integrazione della Bielorussia nella NATO e nell’Unione Europea all’apertura dell’economia del paese, in primo luogo attraverso la svendita delle industrie di proprietà statale. Questa galassia di politici e opportunisti vari agisce da strumento delle mire di USA ed Europa, dirette a spingere la propria influenza verso i confini russi.

Su questo fattore sembra volere ora puntare lo stesso Lukashenko, forse per agitare sul fronte domestico lo spettro dello scenario dell’Ucraina, paese devastato economicamente e socialmente dal golpe promosso dall’Occidente nel 2014. Nei giorni scorsi, il presidente bielorusso ha infatti denunciato i paesi NATO, accusandoli di avere ammassato soldati in Polonia e in Lituania in preparazione di un possibile intervento. Se è improbabile che la NATO possa scegliere una soluzione di questo genere, vista la certa reazione della Russia, che ha a sua volta un contingente militare in Bielorussia, la mossa di Lukashenko punta a ricompattare il paese contro le ingerenze occidentali, nel tentativo anche di rassicurare le ansie del Cremlino.

Per ragioni strategiche, geografiche e storiche, la Bielorussia è un elemento cruciale per la sicurezza nazionale russa ed è probabile perciò che Mosca metterà in campo tutte le risorse possibili per evitare un ribaltamento di campo a Minsk. Ciò non toglie che il Cremlino ritenga già di non poter più puntare su Lukashenko per il futuro. La situazione in Bielorussia resta ad ogni modo estremamente fluida. Il presidente è senza alcun dubbio odiato da buona parte della popolazione, ma allo stesso tempo, vista anche l’assenza di alternative politiche credibili, è visto da molti in patria come l’unica garanzia di stabilità e come assicurazione contro una deriva ucraina.

Per quanto riguarda l’Occidente, le manovre già in atto proseguiranno per ricavare il massimo dal caos seguito alle elezioni del 9 agosto, nel tentativo di sfruttare le tensioni tra Mosca e Minsk, così come il crescente discredito di Lukashenko, causato non solo dalla sua permanenza al potere col pugno di ferro dal 1994, ma anche dalla durissima risposta messa in atto soprattutto nelle prime fasi delle proteste che continuano a lacerare il paese dell’ex Unione Sovietica.

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