Sul fatto che gli Stati Uniti e la loro politica estera rappresentino la forza più distruttiva del pianeta negli ultimi due decenni ci sono pochissimi dubbi. I numeri della devastazione esportata in decine di paesi sono tuttavia rimasti finora in larga misura sconosciuti o indefiniti, giocando sostanzialmente a favore dei difensori dell’imperialismo americano. Una scrupolosa ricerca condotta da un progetto di una università USA ha ora invece delineato in termini concreti lo sconvolgente bilancio – sia pure provvisorio e sottostimato – delle campagne belliche intraprese da Washington dopo l’11 settembre 2001. I risultati confermano come la promozione degli interessi a stelle a strisce abbia prodotto un livello di distruzione quasi senza precedenti nell’ultimo secolo.

Lo studio è firmato dalla Brown University e si concentra soprattutto sugli otto conflitti più violenti scatenati o a cui hanno partecipato gli Stati Uniti dal 2001: Afghanistan, Filippine, Iraq, Libia, Pakistan, Siria, Somalia e Yemen. Il dato indagato più a fondo dai ricercatori è quello del numero di profughi e richiedenti asilo che hanno creato queste guerre, la cui responsabilità è interamente o in grandissima parte da attribuire ai governi americani. Il totale stimato è di 8 milioni di persone costrette a fuggire all’estero e addirittura di 29 milioni di profughi interni.

Questo numero (37 milioni), già di per sé sconcertante, è come anticipato in precedenza da considerarsi di natura conservativa. Gli stessi autori della ricerca spiegano infatti che l’accuratezza dei calcoli su vittime e profughi nelle zone di guerra è tradizionalmente inadeguata. I numeri potrebbero perciò essere superiori anche di 1,5 o due volte quelli proposti.

Inoltre, lo studio considera, per quanto riguarda la Siria, il periodo successivo all’intervento diretto degli Stati Uniti nel 2014, ufficialmente per combattere lo Stato Islamico (ISIS). Se si includono al contrario anche gli anni dal 2011, cioè dall’inizio di un conflitto alimentato in primo luogo proprio da Washington tramite l’appoggio a gruppi armati islamici fondamentalisti, il totale dei rifugiati per tutte e otto le guerre dal 2001 a oggi potrebbe risultare in una cifra che va dai 48 ai 59 milioni.

Questo numero è paragonabile a quello relativo alla Seconda Guerra Mondiale, quando le persone costrette a lasciare i luoghi in cui vivevano sono valutate dagli storici tra i 30 e i 64 milioni. Comunque si considerino i dati, le guerre che nel nuovo secolo portano il marchio americano hanno già di gran lunga provocato maggiori sofferenze e danni materiali di alcuni dei conflitti più sanguinosi del 20esimo secolo, a molti dei quali gli USA presero parte. Nella Prima Guerra Mondiale, ad esempio, i profughi furono circa 10 milioni, nella guerra che segnò la separazione tra India e Pakistan 14 milioni, in Vietnam 13 milioni.

Per mettere in prospettiva questi numeri, la stima più prudente sui rifugiati – 37 milioni – corrisponde grosso modo all’intera popolazione del Canada. Le guerre USA sono poi responsabili del raddoppiamento del numero dei rifugiati avvenuto su scala globale tra il 2010 e il 2019 (da 41 a 79,5 milioni). Singolarmente, nessun dipartimento o agenzia governativa americana ha tenuto il conto dei danni provocati in questo ambito. I ricercatori hanno perciò dovuto appoggiarsi alle informazioni messe a disposizione da organizzazioni internazionali, come l’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR).

Quelle che dunque per la retorica di Washington sono state iniziative belliche necessarie alla promozione della democrazia, alla difesa della “sicurezza nazionale” o alla sconfitta del cancro del terrorismo, per le popolazioni coinvolte hanno significato “bombardamenti aerei, fuoco di artiglieria, irruzioni armate nelle proprie abitazioni, incursioni con droni, battaglie armate, stupri”. Ma anche “distruzione di case, interi quartieri, ospedali, scuole, posti di lavoro, fonti di cibo e acqua”, nonché fuga da “minacce di morte e pulizia etnica su larga scala”. Questi sono, in sostanza e in aggiunta a un numero altrettanto vertiginoso di morti, gli effetti delle operazioni belliche attuate dagli Stati Uniti per la difesa degli interessi strategici ed economici planetari della loro classe dirigente.

A questo bilancio va aggiunto anche quello derivante dalle attività di governi, eserciti, organizzazioni armate e milizie varie – da al-Qaeda ai Talebani fino all’ISIS – dei paesi coinvolti nei conflitti che, tuttavia, sono da considerare una conseguenza delle iniziative americane. Gli autori dello studio avvertono inoltre che gli stessi effetti sono stati causati in misura quantitativamente minore anche in un’altra ventina di paesi, dove gli Stati Uniti hanno operato e continuano a operare con militari sul campo, droni, programmi di addestramento, sorveglianza e vendita di armi, tra cui Kenya, Mali, Niger, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Tunisia e Uganda.

Gli effetti provocati dallo sradicamento forzato non sono soltanto di ordine psicologico ed economico sulle singole persone le cui vite si sono incrociate tragicamente con le mire dell’imperialismo USA. I danni sono evidentemente anche culturali, sociali e politici per i paesi e le comunità che hanno perso milioni di membri e per quelle che ospitano i profughi, spesso privi dei mezzi necessari ad assisterli e a evitare perciò l’esplodere di ulteriori tensioni e conflitti.

I paesi che hanno dovuto pagare il conto più salato in termini di profughi sono l’Iraq (9,2 milioni) e la Siria (7,1 milioni solo a partire dal 2014). Questi numeri corrispondono per entrambi a circa il 37% della loro popolazione. In termini percentuali è però la Somalia ad avere il bilancio più grave per quanto riguarda i rifugiati (46%). Per il paese del Corno d’Africa i dati si riferiscono al periodo che inizia nel 2002, quando gli USA hanno inaugurato l’appoggio militare al governo riconosciuto dalle Nazioni Unite in opposizione alla cosiddetta Unione delle Corti Islamiche. Dal 2006, poi, Washington ha intensificato gli sforzi in quest’area strategicamente cruciale del continente africano con la giustificazione di combattere i fondamentalisti di al-Shabaab.

Gli altri cinque conflitti più rovinosi del 21esimo secolo innescati dall’intervento americano o a cui gli Stati Uniti hanno partecipato hanno invece causato un numero di profughi nella misura seguente: 5,3 milioni in Afghanistan (26% della popolazione), 3,7 milioni in Pakistan (3%), 1,7 milioni nelle Filippine (2%), 4,4 milioni nello Yemen (24%), 1,2 milioni in Libia (19%). Di questo esercito di disperati, quasi due milioni hanno cercato rifugio in Europa e negli stessi Stati Uniti. Per quanti in Occidente continuano a interrogarsi sulle ragioni degli “sbarchi” senza riflettere sulle responsabilità dei loro governi, quasi sempre impegnati a fianco di Washington in queste guerre, la ricerca dell’università americana potrà forse offrire qualche spunto interessante.

Una parte importante dello studio, anche se meno documentata, riguarda le vittime delle avventure belliche a stelle e strisce. In questo caso, i numeri sono probabilmente ancora più imprecisi di quelli dei rifugiati. Ad ogni modo, anche così i dati sono altrettanto scioccanti. Le guerre in Afghanistan, Iraq, Siria, Pakistan e Yemen contano da sole fino a 786 mila morti a causa delle operazioni militari. Se si includono i decessi per i fattori derivanti dalla guerra, come malattie o malnutrizione, si superano facilmente i 4 milioni. Per gli stessi autori, stime credibili potrebbero aggirarsi in realtà sui 12 milioni di morti.

Pesantissimo è anche il bilancio per militari e “contractors” americani. In questo caso i morti potrebbero essere circa 15 mila, per non parlare del numero di veterani tornati in patria con mutilazioni o danni psicologici permanenti. I dati del governo USA risalenti al 2018 parlano di 1,7 milioni di soldati in congedo con una qualche disabilità causata dall’aver servito in uno dei tanti teatri di guerra del 21esimo secolo.

Il panorama che esce dalla ricerca della Brown University è quello causato da una potenza che da almeno due decenni sta provocando morte e distruzione in tutto il mondo in sostanza per rimediare militarmente al declino della propria posizione internazionale, minacciata dall’ascesa di altri paesi. Le campagne di questi anni sono un affare bipartisan a Washington che si manifesta, tra l’altro, in un appoggio senza esitazioni di tutta la classe politica a una macchina da guerra, così come ai colossi privati della produzione di armamenti, che si nutre di un bilancio che sfiora ormai gli 800 miliardi di dollari l’anno.

Complessivamente, ma anche in questo caso si tratta solo di una stima, il costo materiale di tutta la “guerra al terrore” condotta dall’autunno del 2001 ammonta alla cifra quasi inconcepibile di 6.400 miliardi di dollari. Per quanto il bilancio economico, di vittime e di distruzione appaia colossale, è tutt’altro che da escludere un’ulteriore escalation nel prossimo futuro.

Gli obiettivi strategici e militari americani da un paio d’anno non sono infatti più focalizzati sulla minaccia del “terrorismo”, bensì sulla “competizione tra grandi potenze”. In altre parole, le guerre combattute in questi anni contro organizzazioni con un potenziale relativamente limitato come al-Qaeda e ISIS lasceranno il posto o si affiancheranno a conflitti di più ampia portata con paesi dotati di eserciti formidabili e armi nucleari. Le conseguenze che ne deriveranno per popolazioni, economie e infrastrutture sono facilmente immaginabili.

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